Ce lo dice Jacques Delors
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IN UN MOMENTO così difficile per l’economia del mondo e dell’Europa sarebbe bene ascoltare i vecchi saggi. Come ha detto Jacques Delors, uno dei padri dell’Unione europea, in una recente intervista. Delors innanzitutto ci mette in guardia da un possibile declino dell’Europa se essa non riuscirà a trovare finalmente un’unità di intenti e un maggiore coordinamento in materia di politica economica e monetaria. Per Delors questa svolta è cruciale e di gran lunga più importante di quella dell’unità politica dell’Ue (a cui egli dice di non avere mai particolarmente creduto).
In secondo luogo dalle parole di Delors è evidente che egli, anche se un po’ demoralizzato dalla piega degli eventi, rimane profondamente convinto non solo della bontà del modello di sviluppo economico e sociale europeo, ma anche della forza dell’euro: un progetto straordinario, nei riguardi del quale il mondo affaristico internazionale, specie di matrice anglosassone, ha da sempre mostrato prima scetticismo e poi avversione. Questo mondo anglosassone, che dopo aver portato l’economia del pianeta sull’orlo del baratro con la bolla immobiliare-finanziaria ha messo ora l’euro nel mirino, attraverso la speculazione, dimostra di provare un insopprimibile “rancore” verso la moneta unica: un atteggiamento “vergognoso”, dice Delors, “se si pensa ai miliardi che abbiamo perso per salvare il loro sistema”.
La situazione europea è davvero paradossale. L’Ue è oggi la realtà più importante del mondo nell’economia reale: prima per valore aggiunto nell’industria, nell’agricoltura, nel turismo, ben davanti ad Usa e Cina. L’euroarea, poi, è una potenza assoluta nell’export, sia nei manufatti non alimentari sia negli alimenti freschi e trasformati, non solo grazie alla Germania, ma anche ad Italia e Francia. Nel 2008 l’export totale dell’euroarea è stato di ben 1.500 miliardi di euro: oltre 500 miliardi di euro in più dell’export della Cina, quasi il doppio di quello degli Usa e il triplo di quello del Giappone.
Dunque è vero, come dice Delors, che “può anche darsi che a bordo della moneta unica ci fossero un paio di clandestini, come la Grecia o la Spagna, che non avevano pagato il biglietto per intero”, ma l’euroarea ha sicuramente ottimi fondamentali. Inoltre, come abbiamo spesso argomentato su queste colonne, l’euroarea, grazie al basso indebitamento delle famiglie italiane, francesi e tedesche, ha un contenuto debito aggregato: infatti, nonostante le difficoltà di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna, secondo la Banca di Francia alla fine del terzo trimestre 2009 il debito complessivo di famiglie, imprese non finanziarie e pubbliche amministrazioni dell’Euro area era pari al 218% del Pil, contro valori del 237% degli Stati Uniti e del 253% della Gran Bretagna. Nel confronto, considerando anche il debito pubblico sottoscritto da enti e fondi pubblici (non incluso nei suoi calcoli dalla Banca di Francia), il debito aggregato statunitense è in realtà più elevato anche di quello inglese. Senza contare i debiti dei singoli Stati americani (come la malmessa California di Schwarzenegger) o delle città (come Kansas City, che nei giorni scorsi ha addirittura dovuto chiudere la metà delle sue scuole pubbliche per problemi di bilancio).
Ma in questo scenario di crisi mondiale, l’euroarea, pur così più forte di tutti gli altri Paesi nei conti dell’economia reale e nei conti finanziari, non riesce ad esprimere il suo potenziale di fuoco. Eppure i mezzi ci sarebbero, come ad esempio l’emissione di un debito pubblico europeo, gli eurobond, che potrebbero essere eventualmente garantiti dalle riserve auree delle banche centrali, come ha ripetutamente suggerito Alberto Quadrio Curzio in varie sedi, elaborando anche tecnicamente la proposta degli eurobond dello stesso Delors e di personalità italiane come Prodi e Tremonti. Proposte che si collocano in un contesto più ampio sostenuto da Ciampi e da Napolitano.
Le risorse finanziarie raccolte dovrebbero essere finalizzate prioritariamente ai progetti di investimento infrastrutturali, ma anche alla “rottamazione” non più delle “solite” automobili un settore da ristrutturare una volta per tutte bensì dei mezzi di produzione di fabbriche, fattorie ed alberghi (cioè macchine industriali, trattori, arredi, ecc.) affinché l’Europa rimanga competitiva nella sfida globale facendo leva, tra l’altro, su tecnologie e beni che essa stessa produce e non importa, essendone leader nella specializzazione internazionale.
Inoltre, se ci fosse un Fondo europeo per lo sviluppo (Fes), che secondo Quadrio Curzio è quindi una piattaforma ben più ampia e finalizzata del Fondo monetario europeo (Fme) di cui si dibatte in questi giorni, sarebbe più facile intervenire anche a sostegno di Paesi traballanti come la Grecia. Su questo punto anche Delors è chiarissimo: “I ministri delle finanze non ne hanno mai voluto discutere. Se oggi avessimo gli eurobond, potremmo acquistare denaro al tre, tre e mezzo per cento, e prestarlo alla Grecia, che invece paga il cinque e mezzo, sei per cento di interessi. Anche la speculazione, di fronte ai titoli di Stato europei, si darebbe una calmata”.
L’euroarea, dopo lo scoppio della devastante bolla immobiliare-finanziaria costruita sull’asse di interessi comuni Wall Street-Londra-Pechino, ha oggi più di qualunque altra realtà del mondo economico avanzato le possibilità per incamminarsi su un sentiero di crescita diverso da quello dei pur essenziali consumi privati e dell’export, che molto probabilmente resteranno frenati per lungo tempo dagli strascichi negativi reali e psicologici generati dalla crisi globale. Infatti, alla base dell’idea del Fes, vi è la convinzione che l’euroarea possa porsi come obiettivo mirato un progetto di investimenti interni in infrastrutture, macchinari e attrezzature. Ci vuole però più cooperazione, assieme a quel maggiore coordinamento comunitario che nell’intervista a “Repubblica” Delors ritiene essenziale. Una politica di piccoli passi, “senza fughe in avanti”, ma concreta. Sul piano del riavvicinamento delle politiche fiscali, in materia di politica industriale, negli investimenti comuni nella ricerca e nelle reti, nella politica unica dell’energia.
Questo non solo grazie alla Germania, ma anche ad Italia e Francia. Nel 2008 l’export totale dell’euroarea è stato di ben 1.500 miliardi di euro: oltre 500 miliardi di euro in più dell’export della Cina, quasi il doppio di quello degli Usa e il triplo di quello del Giappone.
Dunque è vero, come dice Delors, che “può anche darsi che a bordo della moneta unica ci fossero un paio di clandestini, come la Grecia o la Spagna, che non avevano pagato il biglietto per intero”, ma l’euroarea ha sicuramente ottimi fondamentali. Inoltre, come abbiamo spesso argomentato su queste colonne, l’euroarea, grazie al basso indebitamento delle famiglie italiane, francesi e tedesche, ha un contenuto debito aggregato: infatti, nonostante le difficoltà di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna, secondo la Banca di Francia alla fine del terzo trimestre 2009 il debito complessivo di famiglie, imprese non finanziarie e pubbliche amministrazioni dell’Euro area era pari al 218% del Pil, contro valori del 237% degli Stati Uniti e del 253% della Gran Bretagna. Nel confronto, considerando anche il debito pubblico sottoscritto da enti e fondi pubblici (non incluso nei suoi calcoli dalla Banca di Francia), il debito aggregato statunitense è in realtà più elevato anche di quello inglese. Senza contare i debiti dei singoli Stati americani (come la malmessa California di Schwarzenegger) o delle città (come Kansas City, che nei giorni scorsi ha addirittura dovuto chiudere la metà delle sue scuole pubbliche per problemi di bilancio).
Ma in questo scenario di crisi mondiale, l’euroarea, pur così più forte di tutti gli altri Paesi nei conti dell’economia reale e nei conti finanziari, non riesce ad esprimere il suo potenziale di fuoco. Eppure i mezzi ci sarebbero, come ad esempio l’emissione di un debito pubblico europeo, gli eurobond, che potrebbero essere eventualmente garantiti dalle riserve auree delle banche centrali, come ha ripetutamente suggerito Alberto Quadrio Curzio in varie sedi, elaborando anche tecnicamente la proposta degli eurobond dello stesso Delors e di personalità italiane come Prodi e Tremonti. Proposte che si collocano in un contesto più ampio sostenuto da Ciampi e da Napolitano.
Le risorse finanziarie raccolte dovrebbero essere finalizzate prioritariamente ai progetti di investimento infrastrutturali, ma anche alla “rottamazione” non più delle “solite” automobili un settore da ristrutturare una volta per tutte bensì dei mezzi di produzione di fabbriche, fattorie ed alberghi (cioè macchine industriali, trattori, arredi, ecc.) affinché l’Europa rimanga competitiva nella sfida globale facendo leva, tra l’altro, su tecnologie e beni che essa stessa produce e non importa, essendone leader nella specializzazione internazionale.
Inoltre, se ci fosse un Fondo europeo per lo sviluppo (Fes), che secondo Quadrio Curzio è quindi una piattaforma ben più ampia e finalizzata del Fondo monetario europeo (Fme) di cui si dibatte in questi giorni, sarebbe più facile intervenire anche a sostegno di Paesi traballanti come la Grecia. Su
questo punto anche Delors è chiarissimo: “I ministri delle finanze non ne hanno mai voluto discutere. Se oggi avessimo gli eurobond, potremmo acquistare denaro al tre, tre e mezzo per cento, e prestarlo alla Grecia, che invece paga il cinque e mezzo, sei per cento di interessi. Anche la speculazione, di fronte ai titoli di Stato europei, si darebbe una calmata”.
L’euroarea, dopo lo scoppio della devastante bolla immobiliare-finanziaria costruita sull’asse di interessi comuni Wall Street-Londra-Pechino, ha oggi più di qualunque altra realtà del mondo economico avanzato le possibilità per incamminarsi su un sentiero di crescita diverso da quello dei pur essenziali consumi privati e dell’export, che molto probabilmente resteranno frenati per lungo tempo dagli strascichi negativi reali e psicologici generati dalla crisi globale. Infatti, alla base dell’idea del Fes, vi è la convinzione che l’euroarea possa porsi come obiettivo mirato un progetto di investimenti interni in infrastrutture, macchinari e attrezzature. Ci vuole però più cooperazione, assieme a quel maggiore coordinamento comunitario che nell’intervista a “Repubblica” Delors ritiene essenziale. Una politica di piccoli passi, “senza fughe in avanti”, ma concreta. Sul piano del riavvicinamento delle politiche fiscali, in materia di politica industriale, negli investimenti comuni nella ricerca e nelle reti, nella politica unica dell’energia.