“Ho vissuto il dieci per cento della mia vita sul mare”.
Così il bretone amante della libertà, delle prove solitarie di fronte agli elementi della natura e degli immensi spazi aperti. Il resto della sua vita lo ha dedicato alla lettura, agli amici, alle donne, alla lotta e alla politica intesa come la somma di tutto questo unito alla caparbietà di chi non si arrende mai.
E che sorprende. Quante volte gli hanno detto “è impossibile”, per poi scoprire da lui che il miracolo era fattibile. Ma per questo servono carattere e fede.
“Come i rugbisti inglesi – diceva – non mi do per vinto fino all’ultimo minuto della partita”.
Inizialmente lo snobbai
perché, quando giunsi a Parigi, mi dissero che era “reazionario”.
Indubbiamente aveva una visione per me troppo istituzionale della contesa. Ero molto più vicino all’MNR (futura Troisième Voie) e ai programmi del Parti de Forces Nouvelles. Più simile ai solidaristes che ai nationalistes anche se, oltre a ciò, apprezzavo entrambe le scuole politiche esistenti e concorrenti: quella del Grèce e quella dell’Action Française.
Poi, grazie alla sua azione, ho ricentrato anche il mio sguardo sulla contesa istituzionale che, comunque, ritengo insufficiente. Ma questo riguarda me.
Gli devo molto
Provate a vivere i primi anni di latitanza avendo solo un contatto indiretto con le vostre passioni! I miei primi sette anni dopo il 1980 furono particolarmente prudenziali perché, fino all’esito dei processi TP e NAR ne rischiavo una ventina di galera. Fu solo quando mi accorsi che erano meno di metà che feci qualche passo avanti nella visibilità.
Così le passioni le vivevo da lontano e, ho sempre detto di dovere a Liedholm con la Roma fantastica di quegli anni, e a Le Pen con i successi politici del mio mondo, le grandi gioie della quotidianità di un esule.
“Grazie Presidente, per il sogno che ci ha regalato!”
Così lo salutai nella sua residenza di Montretout nel 2002 la sera dell’esito del secondo turno delle presidenziali che lo avevano posto di fronte a Chirac.
“Grazie, lei è molto gentile” mi rispose. Fu da allora che iniziammo a frequentarci ogni tanto. Mi aveva visto in varie occasioni ma non mi ero mai manifestato. Essendo ricercato fino al 2000, non volevo rischiare di arrecargli un problema.
Probabilmente mi aveva anche intravisto pochi anni prima, quando i tre quarti dell’apparato erano partiti nella scissione con Mégret e volli offrire del mio per aiutare il partito a sopravvivere alla pugnalata alle spalle. Molti dei nostri, con la loro proverbiale e inguaribile ingenuità, ci erano cascati con tutte le scarpe. Ma non fu la prima, né sarebbe stata l’ultima volta che non ebbi timore di essere quasi solo pur di stare nel giusto. Poi, nel tempo, anche gli altri tornarono.
Per due volte Le Pen partì volontario
per la Francia, la seconda da ufficiale paracadutista combattente in Egitto dopo aver dato le dimissioni dal mandato – e dallo stipendio – di deputato (imparate, gente, imparate!), Egli fu un indefesso combattente, in trincea come per strada, dove perse un occhio in una delle tante zuffe.
Possiamo ben dire “beati i guerci nella terra dei ciechi!”
Indomabile e sempre pronto a battersi non cedendo mai, perdonò costantemente i tanti tradimenti subiti da seguaci, amici e familiari. I meschini possono scambiare per debolezza quella grandezza d’animo, la sua magnanimità che ne attestò una certa superiorità morale.
“Nostro padre ha torto a sostenere Saddam Hussein, i nostri elettori non lo capiranno”
Così sua figlia Marine, allora ventiduenne e la sorella Yann, futura madre di Marion, a casa di “Lutin” in una cena a cinque nel 1990. Io non le avevo mai viste prima.
“Sentite – dissi – l’elettorato è femmmina e ama gli uomini con le palle, nessuno ha più palle di vostro padre, quindi tacete!” Apprezzarono, in particolare Marine. Ora non so se apprezzerebbe ugualmente.
Tra parentesi, Jean-Marie qualche giorno dopo venne in Francia portando con sé tutti gli europei che erano rimasti a Bagdad e che si temeva vi restassero come ostaggi.
Quante volte gli hanno detto “è impossibile”, per poi scoprire da lui che il miracolo era fattibile.
“Monsieur Le Pen, da che parte sta?”
Così in diretta televisiva il conduttore, mostrandogli le immagini della prima intifada palestinese, dando per scontato che qualsiasi risposta avrebbe scontentato la metà del suo elettorato. “Lei sa cosa mi sta mostrando? Le immagini di una società multirazziale, io voglio che la Francia non diventi così”
“Monsieur Le Pen, cosa si prova a mettere piede in una nazione fatta dagli immigrati?” Così una giornalista americana al suo atterraggio in USA. “Lei sa con chi sta parlando? Sono Sitting Bull, l’ultimo dei Sioux”.
E ne potrei citare tante altre. Quanto ho sperato, predicato, perfino insegnato, affinché si prendesse ad esempio il suo modo virile e contundente di rispondere!
Prima di mandare in stampa
Orchestre Rouge, nel 2013 gli feci proporre il manoscritto provando il colpaccio di ottenere una sua prefazione. Come avevo dato per scontato mi disse che così avrebbe messo in imbarazzo la figlia.
Parliamo di un libro che tratta degli intrecci tra centrali d’intelligence e terrorismo, difficile stargli dietro dato che riguarda un paese per loro straniero e fatti pressoché ignoti al lettore medio, e questo aggravato dal razionalismo francese. Invece egli aveva colto tutto perfettamente e mi aggiunse particolari e nuove analisi, ad esempio sul cambio della guardia negli apparati israeliani a inizio anni sessanta.
Per sette anni
fino ai blocchi Covid, lo frequentai ogni volta che fu possibile, registrando diversi suoi ricordi da cui, forse, un giorno trarrò un libro.
Era sempre sorprendente per la lucidità mentale, per le anticipazioni degli scenari.
Ormai anziano e malandato, all’inizio di ogni incontro era solitamente un po’ appannato poi, in un paio di minuti, il sangue affluiva al cervello e il più sveglio dei presenti era sempre lui.
Non perse mai i riflessi del seduttore
Quando gli portai una gionalista di Alba Dorata per intervistarlo fu talmente galante e macho da sembrare un giovanotto.
Una volta che a Rungis, vicino Orly, parlò alla tribuna di Synthèse Nationale, un’italiana che era venuta in compagnia di Roberto Salvarani, prese coraggio e si slanciò verso di lui per stringergli la mano malgrado il servizio d’ordine che lo circondava. Lui l’accolse sorridente. Lei mi raccontò di avergli detto “sono amica di Gabriele Adinolfi”, una parola magica. Macché. Oltretutto era sordo… Le ho spiegato che aveva accolto la donna con gioia, altro che l’amica di Adinolfi!
Era anche un gran conversatore, mai banale e mai monotono
Per due volte pranzai con lui. La prima in un ristorante corso con altri camerati francesi a me molto cari (Axel, Antoine, Fred) e poi a casa sua, insieme ad altri ospiti in un quadro da teatro di Boulevard, vicino ai levrieri della moglie Jeannine che, mi ripeteva “lei deve assolutamente conoscere Alain Delon che viene spesso qui. Sapesse com’è ancora bello!”.
E lui che raccontava di avventure marinare in Grecia e intanto spiegava agli ospiti che in Francia si pensa che gli italiani suonino il mandolino ma non bisogna farli innervosire, perché sparano.
L’ultima volta che l’ho visto fu a casa sua
Avevamo concordato un’intervista video per uno youtube spagnolo ma venne ricoverato d’urgenza e saltò tutto.
La sera che lo dimisero, il suo segretario mi telefonò per dirmi che non poteva ricevere nessuno ma che avrebbe fatto un’eccezione per me l’indomani.
Mi recai a casa sua dove mi accolse seduto alla scrivania, con la maglietta della salute e una flebo al braccio. Gli portai un omaggio degli spagnoli. “Dove sono? – mi chiese – Li faccia entrare!”.
Il carissimo Juan Lopez Larrea, che guidava la delegazione spagnola era rimasto fuori in macchina e lo chiamai. Frattanto i domestici erano andati via, sicché mi ritrovai a fare io in cucina il servizio per il bere e per il caffè mentre Jean-Marie, con la flebo al braccio, si agitava scherzando e ridendo in un’atmosfera da cameratismo di caserma, fatta di ricordi e di battute.
Un francese, un italiano e uno spagnolo: la nostra Europa!
Ho sempre ricordato il suo compleanno
e gli telefonavo, cosa che apprezzava. Non gli ho mai confessato che mi era facile, essendo nato egli il 20 giugno, come mia madre, sia pure cinque anni più tardi. E la cosa straordinaria è che è riuscito a morire anche nella stessa data di mia madre! Il 7 gennaio.
Ho avuto lo straordinario piacere di divenirgli un po’ amico quando ormai era stato messo sulla touche, come si dice in Francia, benché avesse ancora tanto da dire e da proporre e fosse ancora una volta quello che, con l’unico occhio, continuava a vedere più lontano.
Possibile bersaglio dell’odio della feccia, di quella stessa che è andata a guaire e mugolare la propria inferiorità alla notiza della sua morte, non aveva alcun genere di protezione e chiunque avrebbe potuto fargli del male. Ma non se ne curava.
Nella sua tana
ho potuto frequentare e apprezzare la maestà del leone d’inverno.
Uno sprazzo d’intimità condivisa.
Di tutto quello che ha fatto e che ha rappresentato si è parlato e si parlerà, ma mai in modo sufficiente. Mi riprometto nel tempo di contribuirvi anch’io.
Ma qui ho voluto ricordare il Le Pen che ho conosciuto e a cui ho voluto bene.
Intanto posso dire con immensa soddisfazione che nella mia vita ho potuto incontrare e frequentare alcuni giganti.
Gli ultimi? Chissà! Ma mi han fatto venire la voglia di cantare una vecchia aria sudamericana “Gracias a la vida que me ha dado tanto!”
Merci Monsieur le Prés-id-ent !
Che il cielo vi sia lieve sopra il mare!