Trentasei anni fa da Pian del Rascino si delineava una sanguinosa strategia
Il 30 maggio 1974 a Pian del Rascino, nel reatino, veniva ucciso da una pattuglia di Carabinieri Giancarlo Esposti, militante dell’ultradestra milanese.
Due giorni prima a Brescia era stata commessa la prima strage consociativa; ovvero il primo massacro volto a far passare nell’opinione pubblica italiana l’idea dell’opportunità di una coalizione tra “nemici” storici: Dc e Pci.
Compromesso Storico
Quel programma, definito appunto Compromesso Storico, era stato disegnato dal partito della Fiat, che si sobbarcò i debiti contratti dai comunisti dopo lo spaventoso aumento della vita susseguito alla Guerra del Kippur dell’autunno precedente e al consequenziale serrate degli Stati produttori del petrolio. Il patto fu quindi ideato dall’avvocato Agnelli e, con lui, da Giulio Andreotti e da Enrico Berlinguer.
Ai registi occulti, a quelli che, come Pasolini, potremmo dire che si sa bene chi siano ma se ne ignora il nome, al fine d’imboccare con successo di carriera la nuova strada parve necessario creare uno stato d’allarme generalizzato e così pensarono di riproporre uno scenario da primavera ’45: unità nazionale contro un’eversione nazifascista che fu esaltata appositamente e dipinta appunto come stragista. Per la salvaguardia della democrazia e per la difesa della sicurezza pubblica tutti avrebbero finito con l’accettare senza troppe resistenze l’abbraccio improvviso tra gli storici rivali.
E i garanti di quest’unità avrebbero così non solo mantenuto ma addirittura consolidato il loro ruolo di registi occulti.
Così maturarono la strage di Brescia e, due mesi e una settimana più tardi, quella del treno Italicus: stragi che portarono il Partito comunista in area di governo e ve lo lasciarono per anni; fino a quando i poteri forti lo ritennero opportuno.
Il fiasco dell’identikit
La morte di Esposti si presentò come un’occasione unica per i direttori d’orchestra.
Le strutture “deviate”, deputate a inquinare le indagini e a indirizzarle sempre in un vicolo cieco, pubblicarono immediatamente l’identikit dell’autore del massacro di Piazza della Loggia: era la fotocopia di Giancarlo Esposti.
Ma, come sa il popolo che esprime la voce di Dio, “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”.
Esposti si era lasciato crescere la barba da più di un mese e nell’identikit di colui che
doveva essere lo stragista di soli due giorni prima non c’era un solo pelo sulle guance e sul mento. Troppo palese l’esecuzione a comando del portrait-robot, realizzato in ufficio da una foto segnaletica e non frutto di una testimonianza oculare, perché gli agenti devianti e le loro casse di risonanza facessero altro che una fischiettante fuga alla chetichella.
Il particolare da allora è stato scandalosamente rimosso mentre invece, a ben trentasei anni di distanza, gli eredi canuti del non ancor tramontato partito dei devianti tuttora si affannano a cercare tra delinquenti comuni presunti “collaboratori di giustizia” che non parlano di fatti concreti o di episodi tangibili ma riportano frasi imprecise – e tra l’altro mai documentate – che dovrebbero in qualche modo tenere in piedi l’architettura corrosa e traballante dello stragismo nero.
In altri Paesi dove uno straccio di Stato esiste, una volta che i devianti si sono fatti cogliere con le mani nel sacco sono squalificati a vita. In Italia, da oltre sei decenni Paese-colonia gestito da cosche, è invece possibile anche questo.
E se è possibile ancora oggi insistere con faccia di tolla a proporre l’improponibile, figuriamoci allora!
La caccia alle streghe
L’incastro di Esposti, morto e quindi non in grado di rispondere alle accuse, fallì miseramente.
Ciò non ostò alla caccia alle streghe organizzata in grande stile dal ministro degli interni dell’epoca, il capo partigiano Paolo Emilio Taviani con il varo degli arresti indiscriminati per il semplice possesso di una copia di un giornale – autorizzato! – di marca “nazifascista”.
Sarebbe divertente sapere che cos’hanno da dire i Di Pietro vari a commento di una serie di arresti illegali compiuti in nome di uno stato eccezionale di polizia che sbeffeggiava letteralmente le leggi e le autorizzazioni dei Tribunali.
Da quel giorno si varò l’epurazione selvaggia, una riedizione in sedicesimo del biennio post-bellico e s’incoraggiò parimenti la follia dell’uccidere un fascista non è reato, di cui si aveva già avuto un chiaro sentore un anno prima con il rogo di Primavalle.
Il sangue scorse a fiotti e sappiamo che lo dobbiamo – tutto – a coloro che abusarono dei poteri istituzionali usandoli non in logica di Stato, come ha sostenuto, sbagliandosi, una fiorente letteratura d’inchiesta prodotta a sinistra, ma in logica di Anti-Stato.
O, se vogliamo, in logica d’obbedienza a qualche altro Stato, che non sempre né soprattutto fu quello americano e quasi mai il sovietico.
E se domani
Confidiamo che un giorno quella storia verrà finalmente conosciuta così come veramente si svolse.
Troppo tardi forse perché qualche centinaio di individui potenti e ignominiosi paghi il fio delle proprie colpe, ma non perché la verità affermi la dignità di chi è stato accusato ingiustamente e fotografi la miseria umana di certi paladini della democrazia.