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Il libro nero del terrorismo americano

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Nell’Introduzione al libro di Dragos Kalajic Serbia, trincea d’Europa scrivevamo: “Se un giorno qualche storico di buona volontà dovesse compilare un Libro nero della democrazia liberale usando criteri analoghi a quelli seguiti dagli autori del Libro nero del comunismo, la somma delle vittime mietute dalle due massime democrazie mondiali, l’inglese e la statunitense, probabilmente non risulterebbe troppo inferiore a quei cento milioni di morti che la demagogia anticomunista ha addebitato a tutti i regimi comunisti messi assieme”.

Questa autocitazione era necessaria, perché assomiglia molto al Libro nero da noi auspicato quello che Mauro Pasquinelli si è provato a scrivere, confermando coi risultati della sua ricerca le nostre supposizioni.

Il Libro nero di Pasquinelli è un vero e proprio inventario dei crimini statunitensi. Partendo da una rievocazione del genocidio compiuto contro le popolazioni autoctone del Nordamerica tra il 1607 e il 1880, la rassegna del terrorismo internazionale statunitense prosegue attraverso una lunga serie di capitoli: Filippine 1899-1902, Il bombardamento di Dresda, Hiroshima e Nagasaki, Isole Marshall 1946-1968, Corea 1945-1953, Vietnam 1965-1975, Cambogia 1970-1989, Iran 1953-1988, Indonesia e Timor Est 1957-1999, Sudafrica 1960-1990, Congo 1960-1997, Angola 1975-2003, Guatemala 1953, Cile 1970-1976, Salvador 1978-1982, Nicaragua 1978-1999, Cuba 1959-2003, Haiti anni ’90, Grenada 1983, Panama 1989-2003, Beirut 1985, Sudan 1998, Magari-e Sharif 2001, Jugoslavia 1991-2003, Afghanistan 1978-2003, Israele, Palestina e Libano 1948-2003, Ruanda, Burundi e Congo 1994-2003.


L’elenco è completo. O quasi. Infatti Pasquinelli dimentica di registrare i crimini commessi dagli americani in Italia nel corso della seconda guerra mondiale, come i bombardamenti terroristici sulle popolazioni civili e sulle opere d’arte. Né viene fatta menzione dell’appoggio che gli angloamericani fornirono in Italia alle attività paramilitari dei collaborazionisti “partigiani”, anche se, come scrive Arturo Peregalli (L’altra Resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra 1943-‘45 Graphos, Genova 1991), “l’accusa al movimento partigiano di essere inserito a pieno titolo nel fronte militare di guerra alleato ha avuto un evidente riscontro storico”. Infatti con la firma dei Protocolli di Roma gl’imperialisti atlantici stanziarono un finanziamento mensile di 160 milioni di lire (del valore di allora) a favore dei collaborazionisti antifascisti. Non si capisce, dunque, come l’autore possa affermare che “gli americani vedevano la resistenza partigiana come fumo negli occhi” e che, “se non fosse stato per la grande resistenza partigiana (…), il nostro continente si sarebbe trasformato in un grande protettorato americano” (p. 26). Certo, alla fine della guerra non tutto il continente diventò una colonia americana, ma mezza Europa sì.


Non è questo l’unico difetto del libro, che qua e là contiene altre pecche del genere, dovute per lo più ad una sorta di ingenua sudditanza nei confronti del conformismo “politicamente corretto”. Però, nonostante tutte le riserve che si possono fare sul risultato del lavoro di Pasquinelli, noi riteniamo che l’intenzione dell’autore debba essere positivamente apprezzata e che questa sua opera vada fatta circolare il più possibile. Insieme con altri libri analoghi, per esempio quelli di John Kleeves, essa fornisce tutti i dati necessari per una critica documentata articolata ai temi della propaganda americana.

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