mercoledì 8 Maggio 2024

In viaggio con Grampasso

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Una lettura imprescindibile

Che il caso non esista lo sapevo già.
Sabato 19 ottobre ho fatto un salto a piazza San Giovanni, non per partecipare all’Impotence Pride del sovranismo, che mi fa sorridere, ma per propagandare il convegno sulle stragi che avevamo in programma otto giorni più tardi.
Vi ho incontrato Mario Merlino che mi ha rifilato il suo ultimo libro, Stile ribelle, edito da Passaggio al bosco. “Bene – gli dissi – tra una decina di giorni parto in viaggio, me lo leggerò nell’occasione”.
Il viaggio, organizzato per festeggiare i sessant’anni di Arrigo, era a Wewelsburg, nel castello dei Cavalieri della Tavola Rotonda dell’Ordine Nero, cui si sarebbe aggiunta una puntata nella foresta di Teutoburgo, dove si trova la più antica incisione conosciuta dell’Irminsul, nonché un antico altare del sole. Tra queste due località si trova il cuore geografico dell’Europa tutta. Per concludere Colonia, romano-germanica. Era, insomma, un viaggio atemporale verso il cuore e le radici arcane.
Non si poteva trovare una lettura migliore per accompagnare questo andare alla Granpasso.
Perché quelle di Mario sono, appunto, memorie di un lontano Granpasso.

Un altro libro
Ancora! Penserà qualcuno iniziando a leggerle, visto che i temi trattati da Merlino sono gli stessi di altri suoi libri di ricordi antichi. Sì, ancora; ma questo è un altro libro, o, più precisamente, è un nuovo percorso della storia infinita, con un’altra consapevolezza, con un’altra luce negli occhi. È, come recita il sottotitolo, una rivolta contro la noia borghese. Contro la protervia, contro il moralismo, contro la violenza dei grammatici che uccidono la poesia, contro il conformismo; non solo quello degli altri, soprattutto quello dell’ambiente in cui l’autore è sempre vissuto e con il quale si è illuso – ma talvolta non è stata illusione – di avere condiviso esperienze, pathos e azioni.
I personaggi più diversi, dal matto al mercenario, dalla musa femminile al boia di Albenga, dai camerati morti prematuramente all’anarchico assassinato in strada dalla polizia, tutti ci appaiono vivi e autentici in questo amarcord di Mario, dalle Ausiliarie a Castelacci. Non è sentimentalismo, il suo, è soprattutto il cogliere e il trasmettere uno spirito e uno stile. Quello spirito e quello stile che hanno attraversato un secolo, con le rapsodie in nero, in rosso e in rossonero e che allo stesso tempo accomunano e distinguono tra loro quelli che li hanno incarnati. Perché è nell’impersonalità che si caratterizzano appieno le persone. L’incontro tra gli opposti, la ribellione e l’obbedienza, l’anarchia e la disciplina, l’amore per gli altri e la solitudine: ciò che, insomma, è stato il Fascismo nella sua anima. Ripercorrerlo (o forse percorrerlo) vi farà bene: è un gran libro.

Nostalgia canaglia!
In tutte le pagine c’è una struggente nostalgia. Credo di avere capito, infine, il perché. Come in altri libri, ritorna spesso l’immagine delle sbarre e dei chiavistelli, della prigionia con l’accusa infame di strage e di una detenzione di tre anni, cui sarebbe seguito un processo interminabile che si sarebbe concluso solo diciassette anni dopo, con l’assoluzione.
Ma non sono quei tre anni di prigionia a rappresentare il trauma esistenziale di Mario. “Ero più libero in quei tre metri per due di quanto lo sia stato spesso fuori”, scrive.
No: il trauma di Mario è la perdita delle ali, quelle ali di cui ci parla e che non ha ritrovato più.
Ma la causa di questo suo precipitare nell’Egeo non è tanto la prigione quanto il cambiamento del mondo mentre si trovava in prigione.
On the road. Quando lo hanno rinchiuso egli era un nomade, un anarchico nicciano, un viandante alla Granpasso che non sarebbe mai diventato Gandalf perché, intanto, l’anima del mondo era cambiata.
In prima linea tra i giovani della sua generazione, faccia al sole, in giro per l’Europa, mobili come il mercurio, ma solidi, interi. Con spirito e stile, appunto.
Essi, nel 1968, credettero di cambiare il mondo, ma stava succedendo l’esatto contrario: era il mondo che si appropriava della loro gioiosa rivolta, strumentalizzandola.
Quando, al solstizio invernale del 1969, Mario imboccò in Regina Coeli, la rigidità degli ideologi, dei grammatici e degli speculatori stava già avendo il sopravvento e avrebbe tarpato le ali ai vagabondi del dharma. Il loro nichilismo titanico sarebbe stato sostituito da un nichilismo di altra foggia e di altra dimensione e tutto si sarebbe putrefatto. La porta della cella di Mario lo ha separato dal Mario pulsante, ricercatore, scanzonato, eternamente innamorato, alato. Altri suoi coetanei non ebbero la fortuna di una cella che facesse da ponte levatoio e così si persero giorno dopo giorno, senza avvedersene. Mario ha potuto vivere, magari da visconte dimezzato, ma nella piena consapevolezza di sé.

Merlino e Casalena
Spirito e stile accomunano e ravvivano tutte le aspirazioni artistiche, esistenziali e rivoluzionarie (arte, eros e guerra, le sole autenticità della vita, come ebbero a scrivere i futuristi).
Far rivivere, far percepire, l’uno e l’altro a chi, non si sa più bene il perché, ha deciso oggi di essere erede delle esperienze maledette dei poeti armati maledetti: questo cerca di fare Mario. Con lui Emanuele Casalena che, nella seconda parte del libro, ci propone una serie di ritratti di artisti fascisti, alcuni dei quali vissuti ben oltre la guerra. Lo fa con una strabiliante maestria. Non soltanto con una competenza magistrale delle arti, ma dimostrando una capacità notevole nell’esprimere le singole personalità e i vari caratteri nelle loro vite. Non vi è scissione ma fusione tra la produzione artistica, l’anima e l’esistenza dei vari personaggi. Ritratti vivi e vibranti che consentono a profani come me di cogliere l’insieme artistico, umano, filosofico, sensuale: un vero capolavoro!
Un fil rouge lega Merlino e Casalena nelle loro narrazioni: è quello dello stile e dello spirito delle rivoluzioni dimenticate, uno stile e uno spirito che, probabilmente incolpevoli, le nuove generazioni non solo non hanno conosciuto ma difficilmente potrebbero capire senza fraintenderlo. La porta della cella di Mario ha chiuso la strada avanti a loro così come l’ha chiusa dietro di lui.
E quel fil rouge si dipana portando all’origine e alla fine di tutto il percorso: alla fedeltà, come non manca di rilevare Merlino. La fedeltà a se stessi e alla promessa che – ci dice Nietzsche- un dì ci fece la vita e che noi ora dobbiamo mantenere.

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