Esame e critica della malattia che da sessant’anni affligge l’Europa: il male americano.
Mi pare che si definisca abbondantemente da solo. E’ un progetto egemonico su scala planetaria che si avvale di una straordinaria superiorità militare e di un atteggiamento remissivo e conformista che affonda le radici nei complessi di inferiorità che molti dei potenziali concorrenti degli Usa hanno maturato in epoche più (1989) o meno (1945) recenti della storia. Ad alimentare questo progetto sono vari ingredienti miscelati: ambizioni geopolitiche, appetiti economici, timori di dover pagare prima o poi il prezzo di scelte fatte in passato, che hanno reso gli Usa largamente impopolari in molti paesi.
Pur criticando la politica estera del Governo americano, tuttavia, lei si tiene alla larga da qualsiasi atto d’accusa spregiudicato al modello americano: la sua è una testimonianza esemplare di come si possa essere contrari all’americanismo senza essere antiamericani?
Quel che mi propongo, pubblicando il mio libro, è di far riflettere sulle conseguenze di un cieco allineamento alle politiche degli Usa e di un’acritica adesione alle premesse culturali che ne sono alla base. Che poi l’american way of life non goda delle mie preferenze, è un altro discorso. Sono un fautore del diritto di ciascun popolo a determinare autonomamente il proprio modello di società: se gli statunitensi sono contenti del loro, se lo tengano. Purché non tentino, come fanno da decenni con la complicità dei loro fans d’oltreoceano, di farne un modello obbligatorio anche per gli altri paesi.
Riflettendo sulle recenti scelte di politica estera dell’amministrazione Bush, ritiene che se ci fosse stato un altro presidente tante decisioni non sarebbero state prese oppure considera che qualsiasi esecutivo a stelle strisce dopo l’11 Settembre 2001 avrebbe agito allo stesso modo?
Spaziare nel mondo delle ipotesi è gradevole ma non troppo serio scientificamente. Posso solo dire che l’attuale politica statunitense non mi pare guidata solo o soprattutto dalla personalità di Bush. Essa risponde ad imperativi e interessi politici ed economici che fanno capo a molti altri soggetti. Se un Gore avrebbe saputo e voluto tenervi testa, o più realisticamente accontentarli in altro modo, non posso ipotizzarlo con certezza.
Se guardiamo al mondo intellettuale nostrano, ci si può rendere conto che si sta vivendo un buio periodo di stagnazione dell’indagine scientifica in tema di problematiche politiche e sociali, per lo più segnato da una generale adesione alle scelte dello Stato americano al di fuori dei propri confini nazionali, che, a volte, raggiunge livelli di grottesca cecità innanzi ad evidentissimi errori commessi dall’amministrazione statunitense. Che cosa ne pensa di tale atteggiamento?
Che è ispirato dal conformismo, una indolore eppure grave malattia dello spirito, in ogni epoca molto diffusa e oggi alimentata dall’azione dei mezzi di comunicazione di massa, a cui è imputabile la presa del “pensiero unico” oggi dominante.
Inoltre, è evidente come sia molto difficile, oggigiorno, riuscire a divulgare attraverso i grandi mezzi mass mediatici idee anticonformiste senza finire per essere tacciati, in ogni caso, per degli antiamericani. Avverte anche lei tale situazione?
Dalla mia precedente risposta risulterà evidente che la avverto. L’accusa di antiamericanismo è un pretesto per delegittimare i dissenzienti. A cui si consente una sola alternativa: subire la gogna o essere sepolti dal silenzio.
Da politologo considera i maggiori partiti dei due più importanti schieramenti della politica italiana privi di qualsiasi volontà di critica nei confronti della politica estera americana in una sorta di compiacimento, più o meno, tacito per il dilagare dello stesso imperialismo s