martedì 12 Novembre 2024

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Cinquant’anni fa i Beatles irrompevano con Love me do

 

 Il 5 ottobre 1962 usciva il primo quarantacinque giri dei Beatles  Love me do (amami o fa’ in modo di amarmi). Un imperativo, quest’ultimo, immediatamente accolto. Subito nasceva infatti un amore profondo e coinvolgente tra i Fab Four e le giovani generazioni di ogni Paese industrializzato.
Accadeva qualcosa di magico. Magia nera per molti tradizionalisti (e di sicuro ce n’era in quella tensione psichica da abbandono collettivo) ma non solo.
I Beatles sono (stati) la colonna sonora di una generazione ribelle eternamente a cavallo fra titanismo e regressione infantile, tra nomadismo anarchico e rattrappimento fetale.
Furono e restano la traccia musicale, dunque dell’anima, di una possibilità estrema solitamente sognata e disattesa.
Così scriviamo a proposito dei qulle generazione e di quegli anni in Tortuga.
I “favolosi anni Sessanta”, che per la precisione è opportuno far partire nel 1958, con la rivoluzione del rock, per chiuderli dieci anni dopo con la contestazione giovanile, sono stati oggetto di considerazione distratta e di sentenze frettolose.
In realtà la rivolta globale di una generazione contro la soffocante ipocrisia della società nata dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale, presentava alcuni elementi di notevole interesse. Innanzitutto la rivolta nasceva dalla mancata alternanza generazionale la quale, a sua volta, era l’effetto dell’esorcizzazione della dea guerra.
Nei ritmi forti, nei colori aggressivi e in qualche modo barbarici, nelle scelte radicali di rigetto esisteva, allora, una buona dose di spirito guerriero; che, soprattutto sul finire del fenomeno ribellistico, siano emersi una serie di slogan e d’immagini trasudanti pacifismo tellurico e castrante non toglie che, allora, l’elemento preponderante fosse una rabbia virile. Sarà proprio il fallimento della tensione ribellistica che si consumerà nella Torre di Babele del Sessantotto globale a rigettare quella tensione indietro, in basso, sotto terra.
Così la spinta solvente, lo “shivaismo” di quell’epoca finì con il rivolgersi non più contro l’artificiale edificio esterno ma contro se stesso. Produsse pulsioni a gettarsi via, al suicidio, al tragico rifiuto di accomodarsi nelle pieghe offerte dalla società matrigna. Divenne, quindi, devastante e annichilente.
Del che, aggiungiamo ora, è lecito essere nostalgici visto che tutto è oggi piattamente devastato e totalmente annichilito.
Il titano non prevalse, casomai si consumò o si perse, e rimase soltanto il feto: l’essere indistinto e sessuato sì e no fisicamente che imputridisce oggi in questa soffocante società matrigna.
Ma questa è musica di oggi, non di allora.

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