Che cosa si può comprare oggi con 9 centesimi di euro? Non bastano per un sms, forse sono sufficienti per pochi chiodi. Non mi viene in mente molto altro, se non che è il prezzo all’ingrosso di un chilo di carote. Ma è soltanto uno dei tanti esempi possibili se parliamo di cibo. ? probabile che i lettori non se ne siano accorti perché a loro costa sempre uguale se non di più, ma i prezzi che spuntano i contadini sono in declino costante da anni. Le aziende agricole producono quasi tutte in perdita e la cosa passa sorprendentemente sotto silenzio. A qualcuno importa ancora della nostra agricoltura?
Dal dopoguerra a oggi il settore non è mai stato così in crisi come adesso: si pensi soltanto che un quintale di grano viene pagato tra i 13 e i 15 euro, a un prezzo decisamente più basso di addirittura vent’anni fa, quando ne costava 25. Solo nell’ultimo quinquennio ha perso il 30% circa. E nel mezzo c’è stata l’inflazione dei costi di produzione: come rilevano le associazioni di categoria, oggi produrre un ettaro di grano a un contadino costa 900 euro, mentre ciò che ne ricava sono 600 euro. Sfido chiunque a non farsi passare la voglia di lavorare a queste condizioni. Tutti i settori vivono questa crisi: le stalle di bovini e suini stanno subendo una vera e propria ecatombe. Solo nel settore lattiero-caseario siamo passati da più di 180 mila stalle nell’89 alle attuali 43 mila circa. Il prezzo medio dei suini, al chilo, nel 1990 era di 1,2 euro, nel 2009 è lo stesso.
Siamo arrivati al punto che andrebbe bene il commercio equo e solidale per i nostri contadini, e non per quelli dei Paesi poveri. Secondo dati ufficiali, nel 2009 i prezzi all’ingrosso sono diminuiti rispetto all’anno precedente del 71% per le carote, del 53% per le pesche, del 30% il grano, del 30% il latte, del 19% l’uva e il trend quest’anno non sembra migliorare, anzi. Una volta i contadini dicevano che il riso era l’unico prodotto che dava loro una certa sicurezza, perché anche se tutto andava male un minimo di guadagno lo offriva sempre. Beh, neanche il riso si salva, se nell’ottobre 2009 costava quasi 50 euro al quintale e oggi arriva a 30.
Un disastro di proporzioni mai viste, ma forse se ne stanno accorgendo soltanto i contadini, sempre più disperati. Perché a noi la carota pagata 9 centesimi ai contadini continua a costare un euro al chilo, con l’incredibile ricarico del 1100 per cento. Il latte, pagato la miseria di 30 centesimi al litro, lo compriamo a più di un euro e le pesche, che al chilo valgono più o meno come un litro di latte, ci costano invece quasi due euro.
E’ pazzesco, eppure è la norma e non fa più notizia. E non sono cose congiunturali: sono strutturali. La nostra agricoltura è ancora per fortuna fatta di tante aziende medio-piccole, e questa è sempre stata la nostra vera forza. Diversità, radicamento sul territorio che ha fruttato anche in termini di bellezza relativa della nostra nazione, la capacità di preservare la biodiversità che è anche espressione culturale, di un’evoluzione lenta e attenta, principale risultato del nostro “adattarci localmente”. Ma queste aziende medio-piccole hanno il futuro segnato se non ci saranno cambiamenti forti, con la capacità di guardare al lungo periodo. La nostra agricoltura per quanto originale nel contesto europeo non è immune dai processi di industrializzazione, centralizzazione e ancora di più concentrazione che hanno investito le agricolture dei Paesi del Nord Europa, della Francia, della Gran Bretagna, sul modello di ciò che è avvenuto negli Stati Uniti: è l’idea che si possa produrre cibo senza contadini. Tanto il cibo lo si fa viaggiare; tanto bastano pochi addetti che si trasformano in operai a cottimo per le grandi industrie o le catene di distribuzione.
Abbiamo una delle agricolture anagraficamente più vecchie d’Europa. Abbiamo un contadino giovane, sotto i 35 anni, ogni 12,5 agricoltori con più di 65 anni. Niente di paragonabile a Francia e Germania, dove lo stesso rapporto scende rispettivamente a 1,5 e 0,8. Significa che in Germania ci sono più persone in agricoltura con meno di 35 anni che con più di 65. E se non bastano gli anziani, arrivano gli immigrati, che visto l’andazzo non è poi tanto sconveniente sfruttare anche in maniera violenta. L’altro giorno ero a Zibello, cittadina diventata marchio internazionale di qualità per via del culatello. Sulle panchine del paese ho visto delle donne con il sari indiano. “Gli indiani riescono a sopportare la vita grama dei nostri vecchi” mi è stato detto quando ho chiesto perché erano lì.
Chi altri vuole sopportare questa vita grama? Nessuno, e il problema è proprio quello. Come si fa a vivere se il cibo viene pagato così poco? Se le campagne non hanno più uomini e donne che le popolano e le mantengono vive? Sotto lo scintillìo degli scaffali nei nostri luoghi di spesa spesso c’è un commercio che tende ad avere le stesse caratteristiche di quello nei Paesi in via di sviluppo: sfruttamento, intermediari che fanno il bello e il cattivo tempo, infiltrazioni della malavita che fa viaggiare i prodotti a puro scopo speculativo, contadini che alla fine si riducono in miseria e devono mollare. ? la faccia triste del progresso, il risultato cui tutte le agricolture “moderne” e “competitive” saranno destinate se non ci si rende conto che il lavoro contadino va riconosciuto, rispettato, premiato, incentivato, protetto, portato in palmo di mano come base profonda e intelligente della nostra società. Forse ci vogliono meno industrie e più persone nelle campagne.
I fanatici del Pil questo non lo capiscono, bollano come “poesia” la vendita diretta (in costante crescita), i mercati dei contadini, la piccola produzione che non è in grado di far viaggiare merci per tutto il mondo ma riesce bene a coprire il fabbisogno dei mercati locali. Senza contadini sparirà anche il “made in Italy” agro-alimentare: non basteranno le industrie a spacciare una menzogna, ovvero prodotti sempre più finti, di peggiore qualità, sempre più omologati su un livello medio-basso. E la colpa sarà di tutti, la colpa è già di tutti.
I commercianti: sette gruppi di grande distribuzione si spartiscono il 98% del loro mercato. I ricarichi tra il prezzo finale e il prezzo di origine sono altissimi. Questi soggetti sono i più potenti, più forti delle multinazionali delle sementi, perché con quest’oligopolio sono in grado di condizionare qualità, caratteristiche, prezzi alla produzione. Se “mangiare è un atto agricolo” – e dobbiamo prenderne tutti coscienza – anche distribuire è diventato un atto agricolo, ma in negativo: quando il prodotto non ha le caratteristiche richieste non viene ritirato, e la leva del poter decidere i prezzi è micidiale. In questo modo si orienta l’agricoltura, s’instaura un meccanismo che fa tendere alle grandi concentrazioni, che per questi gruppi sono più facili da gestire. Non voglio prendermela troppo con la grande distribuzione perché concorre a questa situazione insieme a tutti gli altri soggetti coinvolti nei processi del cibo, ma il principale gruppo operante in Italia era nato nel secolo scorso per difendere i diritti dei più deboli, per rendere il cibo accessibile ad ampie fasce di popolazione. Ancora oggi punta molto sui diritti del consumatore nelle sue pubblicità, e gli va riconosciuto che molti passi avanti in questo senso sono stati fatti, ma voglio far notare che il lavoro svolto a favore dei contadini non viene sufficientemente comunicato e, aggiungo, deve essere implementato.
Parlo della Coop perché ritengo sia un soggetto forte in grado di sviluppare una trasformazione virtuosa. Quando mio nonno, socialista, macchinista ferroviere, nel lontano 1920 costituiva con altri “compagni” la cooperativa di consumo di Bra, la sua città, aveva chiare le finalità solidaristiche di questa istituzione. Rivitalizzare oggi queste finalità significa costruire un nuovo patto tra contadini e cittadini, rafforzare l’informazione, la tracciabilità dei prodotti, l’educazione alimentare, sostenere l’agricoltura locale e la stagionalità dei prodotti. A coloro che mi dicono che questo già avviene dico che non è sufficiente. A coloro che mi dicono che non è sostenibile dal punto di vista finanziario dico che è l’unica politica in grado di rilanciare la Coop in un contesto di grande crisi.
Ma è facile dare la colpa agli altri, piuttosto rendiamoci conto che neanche noi siamo esenti da responsabilità. Quando leggo che, a fronte del problema delle mozzarelle blu che sono spuntate come puffi un paio di settimane fa, ci sono state reazioni “possibiliste” dei consumatori (“Io le compro lo stesso, perché costano pochissimo, poi al massimo se vedo che sono blu le butto via”) mi rendo conto che siamo vicini a un punto di non ritorno. Conta soltanto più il prezzo, pretendiamo prezzi così bassi che non possiamo neanche più lamentarci se la qualità è scadente. Al massimo si spreca, si butta via. Del resto, la qualità neanche la sappiamo più riconoscere. Insorgiamo per le zucchine a sei o sette euro d’inverno quando non ci rendiamo conto che è folle chiedere le zucchine d’inverno. Adesso che sono in stagione, per la cronaca, costano un euro o poco più. Se noi per primi, come consumatori, piccoli ingranaggi indispensabili al sistema, non cominciamo a renderci conto che il cibo va pagato il giusto, che ha valore e non soltanto prezzo, che dobbiamo aiutare i contadini perché “mangiare è un atto agricolo”, allora non cambierà mai niente, e la nostra agricoltura morirà seriale, finta e omologata come in tanti altri Paesi del mondo che hanno già commesso questi errori. Vedi gli Stati Uniti, dove non a caso si sta assistendo a un vero e proprio rinascimento guidato dai foodies, persone che hanno a cuore il loro cibo e quello dei loro figli, si riforniscono nei mercati contadini, sviluppano reti di vendita diretta su internet, invogliano una nuova generazione di giovani a diventare contadini o chef che fanno del locale e dell’ecosostenibilità delle bandiere da apporre su cucine strepitose.
Mi chiedo quando avremo una politica agroalimentare degna di questo nome, che educhi i cittadini a scelte responsabili, sostenibili e piacevoli, che dia una mano a quei contadini che producono in maniera corretta per il loro e il nostro bene. Non vedo segnali forti né al governo né all’opposizione. Per anni gli agricoltori sono stati assistiti con sussidi a pioggia, depauperando così il loro modo di produrre e fare impresa, e oggi sono isolati e gabbati. Dobbiamo aspettare anche noi che la buona agricoltura ci muoia tra le braccia? Perché nessuno scende in piazza per difendere i contadini? Ci vuole un rinascimento che non guardi solo al Pil, che vada al di là degli interessi di categoria sussidiati per mantenere in vita un’agricoltura che, se non è già morta, è destinata a farlo presto. Un rinascimento che, credetemi, non è poesia come molti invasati del Pil sostengono. E’ un rinascimento che parte dall’agricoltura ma non è soltanto agricolo. E’ di vera civiltà.