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La latitanza fa bene

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Memorie 

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Gabriele Adinolfi ha sfornato un altro libro. Mantenendo questo ritmo di produzione, potrebbe arrivare a minacciare il primato della “Comédie humaine” generata dal più che prolifico Honoré de Balzac. “Io fascista ricercato” (edito da Soccorso sociale) continua il racconto della tragedia umana che ha iniziato quindici anni fa con “Noi Terza Posizione”. Se dovessi usare un solo termine per questa nuova opera dello scrittore Adinolfi, sceglierei “emozionante”, il participio aggettivato che il grande dizionario del Battaglia definisce così: «Che suscita emozioni, che commuove, che appassiona, che eccita». Non è da escludere che sia stato sommerso da una cascata di emozioni eccitanti e appassionanti perché ho sperimentato okkupazioni e scontri ed ho conosciuto molte delle persone evocate da Gabriele. Se non mi fossi sentito coinvolto (mi ha perfino citato), sarebbe stato diverso? Un minisondaggio fatto sotto l’ombrellone ha confermato che il libro è “oggettivamente” emozionante.

DAL GRAND TOUR ALL’INIZIAZIONE

fascista-ricercatoPrendendo a prestito un po’ dell’ironia di Gabriele, direi che invece del Grand Tour, il viaggio educativo che aristocratici rampolli facevano qualche secolo fa in Europa con tappe obbligatorie in Italia, è stata la latitanza ad educare il fascista ricercato.

Va detto che non erano soltanto milordini e marchesini a fare il Grand Tour. Basta leggere il “Viaggio in Italia” di Goethe per comprendere che per alcuni privilegiati (artisti e letterati) il lungo cammino prendeva le sembianze di un percorso iniziatico. Credo non sia esagerato parlare della latitanza di Gabriele come di una iniziazione. Scrive infatti: «Il dovere e l’onore non sono gratuiti: se li vuoi, paghi»; «Se scegli di essere un eretico, scegli anche di bruciare in eterno»; «… dopo giorni e giorni che non mi perdo d’animo mi rassegnerò a questa bizzarra imperturbabilità che si accompagnerà, durante tutto il mio soggiorno austro-italiano, ad uno sguardo ironico e a un che di approccio metafisico alla cattività, certamente breve, in cui, me lo si perdoni, mi sono divertito».

ARJUNA E MORSELLO

crive anche: «Sono sempre pronto per imprese disperate…» perché la vita, quella vera, è combattimento e poco importa se si vince o si perde. Ciò che conta è altro: nella “Bhagavad Gita” viene ricordato all’arciere Arjuna, il Puro, che nessuna cosa vale di più della battaglia combattuta secondo il proprio dovere.

Accennavo prima all’ironia, un’arma che Gabriele sfodera d’emblée senza riguardi a persone e circostanze, e anche in questo libro ce n’è un bel grappolo. Pilucco qualche acino qua e là. A Morsello già calvo quando fu invaso dalle metastasi disse: «Guarda il lato positivo della cosa. Con la chemio non rischi di perdere i capelli».

Inseguito dai compagni si rifugia in un negozio. È un’armeria e gli aggressori si fermano. Ricorda: «Sono entrato nel primo negozio a caso, quello accanto era una pasticceria». Sottinteso: l’avrebbero bombardati con bignè e cannoli.

UN TESTO POLITICO

«Io fascista ricercato» è soprattutto un testo di politica.

L’Europa? Dice il tenente Pignard-Berthet: «La nostra guerra, quella che abbiamo perso, è solo una battaglia. Pensate al futuro e lottate per l’Europa Nazione senza farvi abbindolare dalle sirene dei nazionalismi provinciali e del sovranismo anti-europeo».

Replica Gabriele: «Non so in quanti abbiano resistito o resisteranno a quelle sirene, mon Lieutenant, in quanto a me obbedisco».

L’euro? Gabriele sottolinea: «L’ultima grande trovata è quella per cui la sovranità nazionale dipenderebbe dalla monetaria. C’è un po’ di vero come in tutte le affermazioni che sono poi deviate nelle semplificazioni ultrapopuliste, ma siamo in presenza di una struttura mentale da marxismo d’accatto. Se tutto fosse così semplice, qualcuno si è chiesto cos’è stato della sovranità italiana dal 1945 al 1981, anno in cui abbiamo ceduto quella monetaria?».

PER CHI RIFLETTE

È un libro denso di spunti disposti a bella posta per riflettere (ovviamente per chi ne sia capace) ed è ricco di informazioni. La tentazione di riproporne intere pagine è forte e resisto perché vince la voglia autobiografica.

A proposito del sacrario del Duce scrive: «Non avevo mai messo piede a Predappio prima di montare la Guardia. Il mio amore per il passato non è mai stato museale e odio i cerimoniali».

Sono arrivato a Predappio come tappa intermedia mentre andavamo a Cassano d’Adda. Ad Arrigo dico: «È la prima volta». Mi accompagnano. Per anni da Salerno erano partiti pullman per Predappio. Non m’ero mai accodato.

LA CRIPTA E GLI EROI

Sono stato nella cripta, da solo, per circa due minuti. Inutile trovare le parole. Chi sa di cosa parlo non ha bisogno di descrizioni. Per gli altri, per coloro che non comprendono, le parole sono inutili.

Dicevo all’inizio delle persone che Gabriele cita per onorarle. Sono ritratti magnifici. Anche quando sono brevi. Leucio Miele occupa meno righe di altri ma il motivo è semplice: Gabriele parla di chi ha conosciuto e lo fa in rapporto alle frequentazioni. È un segno di onestà. Lo conosco da quando in tre o quattro di Lotta di Popolo ci “concentravamo” al bar Tortuga per dare man forte (autoironia involontaria) ai ragazzi del Giulio Cesare. Gabriele non ha mai imbrogliato. Stretti tra sbirri vendicativi e compagni assatanati, i ragazzi di quel liceo avevano bisogno d’aiuto, e solitamente Gabriele se ne usciva con qualche battuta sulla nostra “risolutiva” presenza.

LE BUGIE DEGLI ALTRI

Che Gabriele Adinolfi sia limpido lo dice questa affermazione: «…ho la tendenza a credere che ognuno dica la verità». Mi sento un verme ma parto sempre dal presupposto che chi mi sta di fronte mente (fare il giornalista e frequentare i politicanti del Palazzo non aiuta…) per cui è l’altro che mi deve dimostrare d’essere diverso.

DA WALTER A GIANO

Ma ci sono persone che non ne hanno bisogno. Walter, per esempio. O Leucio, o Enzo Maria, oppure Giano, o anche Gianluca e Evola. Tocca leggerlo questo “Io fascista ricercato”.

Un’ultima annotazione la faccio sugli 007 dell’Interpol. Scrive Gabriele: «… un latitante è fonte di ricchezza e di trasferte pagate, magari con un’ottima scusa per farsi finanziare il Moulin Rouge o le Folies Bergère». In Grecia, avevano individuato un pericolosissimo latitante ma se ne stettero una settimana sulla terrazza dell’hotel a bere ouzu e strizzare l’occhio alle signorine.

MA CHE C’ENTRANO I RAGAZZI?

Roba di poco conto. Alla fin fine, ciascuno fa il proprio mestiere: lo sbirro aspetta che qualcuno gli faccia la soffiata, il latitante cerca di non farsi acciuffare, l’intellettuale fa finta di aver capito e fa le conferenze, il cronista ricopia fedelmente le veline della questura, il mezzobusto tv rincorre l’audience dando la parola al super ricercato, il camerata ti chiede il voto perché lui non si farà mai comprare, il compagno ti dà la caccia perché senza la militanza antifascista non esiste… ma i ragazzi? Le vittime di un sistema ignobile che si autodefinisce democratico e t’impedisce di parlate? Quei ragazzi chi li aiuta?

Ricorda Gabriele: «Terza Posizione avrebbe affrontato una delle più assurde storture giudiziarie dell’epoca con tanto di ragazzi imprigionati a diciassette o diciotto anni e assolti dopo aver trascorso ben cinque anni e mezzo in carcere: praticamente tutta l’età dall’adolescenza alla maturità».

Erano anni nei quali le guardie sequestravano la pistola di plastica del ragazzino e mettevano in galera il papà. Il giudice si limitava a chiedere la perizia di un esperto e soltanto dopo che costui giurava che quella era una pistola giocattolo si aprivano le porte del carcere.

 

È vero che la giustizia è come il timone e dove lo giri va, ma la repressione banditesca ha moltiplicato i fascisti. Eterogenesi dei fini.

 

Giuseppe Spezzaferro 

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