sabato 14 Dicembre 2024

La memoria dei video-giochi?

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Si complicano i tentativi di preservare la storia dei videogiochi: l’ente che si occupa del diritto d’autore negli Stati Uniti ha espresso il suo verdetto dopo il caso esploso lo scorso aprile, dichiarandosi contrario alla possibilità che biblioteche e archivi potessero aggirare le restrizioni sul copyright imposte dal DMCA (Digital Millennium Copyright Act) per consentire la fruizione delle opere da remoto.
La battaglia, nata tre anni fa ed entrata nel vivo in seguito alle dichiarazioni del gruppo ESA (Electronic Software Association), che aveva affermato di non voler partecipare agli sforzi per la conservazione dei videogiochi classici finché il loro copyright non fosse stato tutelato da normative precise, si è conclusa con un nulla di fatto in seguito alla decisione dell’ente per il diritto d’autore.

A distanza di sette mesi dall’ultimo aggiornamento, infatti, l’ente statunitense ha deciso di non concedere l’esenzione dal Digital Millennium Copyright Act che avrebbe favorito tale conservazione e consentito ai ricercatori di accedere in remoto ai titoli classici. L’ostacolo era rappresentato dalla sezione 1201 del DMCA, che “proibisce espressamente l’elusione delle misure tecnologiche impiegate da o per conto dei titolari di copyright per proteggere l’accesso alle loro opere, nonché il traffico di tecnologie o servizi che facilitano tale elusione”. Il timore dei produttori di videogiochi, infatti, è che tale esenzione potesse essere sfruttata per scopi ricreativi.
Negli ultimi tre anni, il gruppo Video Game History Foundation (VGHF) ha lavorato con l’ente SPN (Software Preservation Network) a una petizione per ampliare questa sezione della legge, che consentirebbe a biblioteche e archivi di aggirare legalmente tali restrizioni e di condividere in remoto le copie dei videogiochi non più in commercio per scopi accademici e di ricerca. La scorsa settimana, l’ente statunitense per il copyright ha respinto tale proposta di esenzione citando anche il gruppo ESA, che ha osservato come la Video Game History Foundation e gli altri proponenti non abbiano fornito un “chiaro requisito per sapere chi sono questi utenti o perché vogliano accedere a un determinato videogioco”.

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