Non ho potuto fare a meno di incappare in questo Waka Waka che va tanto girando in questi giorni di calcio appassionato. E chi sarà mai riuscito a sfuggirgli?
Già il solo aver potuto concepire un simile prodotto mette in seria discussione l’attenzione che gli organizzatori del mondiale hanno indirizzato verso i problemi del continente; il fatto che poi tutti stiano contribuendo a diffonderlo a macchia d’olio porta a galla per l’ennesima volta la profonda ignoranza che il mondo occidentale mostra nei confronti della realtà africana.
Volendo si sarebbe potuto giocare il mondiale ed evitare qualsiasi interessamento sull’argomento, rimandare insomma la questione più in là se non ignorarla del tutto. E’ comprensibile – sebbene personalmente non lo accetto né lo condivido – che in un contesto sportivo il pubblico italiano e europeo voglia solo godere della competizione calcistica, eludendo piuttosto qualsiasi discussione che possa dirsi anche solo lontanamente impegnata.
E invece non è stato fatto. Al contrario, con questo video si è tentata la solita operazione, ovvero vendere un’immagine del continente africano che non esiste, priva di qualsiasi fondamento e del tutto fantasiosa.
Dal video – che vi invito ad osservare attentamente – traspaiono due messaggi: “questa è l’Africa” (“‘cuz this is Africa”) e “questa è un’occasione per l’Africa” (“this time for Africa” – più propriamente “questa volta per l’Africa”, ma nel contesto anche la prima traduzione può essere accettata).
Il video si rivela un ottimo pretesto di discussione: a proposito di quel “questa è l’Africa”, diciamo subito che i “veri africani” seguiranno sì il mondiale (come gli è possibile), ma noi non li vedremo mai: non si vedono né in questo video-spot, né si vedono o si vedranno negli stadi. L’unica immagine ai nostri occhi è la stessa già proposta dai depliant delle agenzia di viaggi, semplicemente perché per loro il mondiale ha un costo non accessibile.
Ho avuto modo di conoscere anche delle famiglie composte da dieci elementi (otto figli) con un redditto di 400\ mensili (con un tasso di disoccupazione molto più alto del nostro, in molti casi solo uno su due ha un posto fisso). Nonostante la media sia un po’ più alta, questi – si badi bene – non sono dei casi limite, bensì molto diffusi: la stragrande maggioranza di loro non può permettersi un televisore, figurarsi un biglietto per lo stadio il cui prezzo oscilla tra i 300 (per la prima fase) e i 2500\ (per la seconda fase).
E’ sì vero che una parte dei biglietti è stata venduta a un prezzo molto più basso per la popolazione locale, ma per i più che magari vivono nelle baraccopoli qualsiasi prezzo è proibitivo a prescindere, perché qualsiasi bene di consumo non strettamente indispensabile può diventare una questione di vita o di morte: in Sud Africa la disoccupazione raggiunge il 25% e buona parte di questa popolazione vive ancora con meno di un dollaro di un giorno, pari a poco più di 80 centesimi di euro. Si capisce che, in un simile contesto, anche 20\ diventano per qualcuno una spesa impegnativa.
Non ci si faccia poi ingannare dalla media di cui ho prima accennato: in Africa il divario tra ricchi e poveri ha delle proporzioni abissali rispetto alle nostre, la media è falsata e rappresenta poco se non nulla.
Al contrario, si potrebbe piuttosto dire che gli africani sono stati “allontanati” dal mondiale: i poveri che fino a poco tempo fa vivevano nei pressi delle località designate per i nuovi stadi (o comunque per l’intrattenimento dei turisti durante il mondiale) sono stati allontanati a “colpi di ruspa”. Filippo Mondini, missionario in Sud Africa dal 2004 al 2008, racconta a proposito delle baraccopoli non distanti dagli stadi: “ci sono tantissimi topi e ogni anno diversi casi di bambini mangiati dai topi. Non c’è privacy e ne soffrono soprattutto le donne. Le latrine sono buche comuni scavate nella terra. Non c’è mai silenzio, né elettricità. D’inverno è freddissimo, d’estate c’è un caldo atroce. La piaga degli incendi è terribile e c’è un’altissima disoccupazione”. Riferendo poi che “da anni si verificano arresti dei ragazzi di strada e operazioni di espulsione delle masse povere dal centro verso le periferie dei transit camp con i container. Tutto per ripulire l’immagine delle città in vista dei mondiali. I venditori ambulanti allontanati dalle zone adiacenti allo stadio, i poveri tagliati fuori”. Questi famosi “transit camp” sono dei piccoli container allocati appositamente lontano dalle città (dove non possono essere visti dai turisti) e sprovvisti sia di elettricità che di acqua, nonostante siano stati perfettamente legalizzati.
Questa situazione è possibile per un semplice motivo. Come spiegato in un articolo di Pepe Escobar sull’Asia Times e riportato su Internazionale, “la Fifa è assicurata per ogni evenienza. Per questi mondiali la polizza ammonta a circa nove miliardi di dollari. Inoltre, l’organizzazione ha un potere economico enorme nei confronti degli stati che ospitano la manifestazione”. La Fifa vanta un potere senza limitazioni, perché “quattro anni fa il parlamento sudafricano ha attribuito ai mondiali lo status di evento protetto, gestito da una normativa specifica. In poche parole ha lasciato alla Fifa i diritti per qualsiasi cosa, dalla pubblicità al marketing, fino al controllo del perimetro intorno agli stadi. Questo significa che fuori da ogni stadio c’è un ente sovranazionale completamente autonomo”.
L’aspetto economico non è comunque da meno. Qualcuno avrà letto un articolo de Il fatto che riporta una previsione della crescita del Pil sudafricano pari allo 0,54%. Su questo non ci sono dubbi: in termini generici e senza entrare “nei dettagli”, un mondiale non può che portare ricchezza. Vorrei vedere il contrario.
Ma, entrando “nei dettagli”, chi è che ha davvero da guadagnare da un mondiale? Tra la popolazione soltanto i privati, chi sta nel commercio. Una percentuale irrilevante per un continente che in molti casi vive ancora oggi di agricoltura, di pesca, di manifattura, di espedienti improvvisati e arrangiati, se non di elemosina là dove l’afflusso del turismo è consistente.
La previsione, presentata così, risulta come un dato inutile, almeno finché non si avrà l’occasione di conoscere dettagliatamente come verrà ripartita la presunta ricchezza portata dai mondiali.
Qualcuno, prevedibilmente, chiederà: “e gli stadi chi li ha costruiti?”. La domanda è giusta, ma l’argomento “stadi” deve essere affrontato nella sua complessità. Certamente i mondiali hanno contribuito a creare nuovi posti di lavoro, soprattutto per quanto riguarda il settore edile (certamente nemmeno è l’unico); e nonostante questo lavoro sia stato a tempo determinato e quasi certamente sottopagato (parliamo ovviamente della manodopera e in relazione a quello che è il suo prezzo dalle nostre parti – per quel poco senso che può avere un simile paragone), è stato in ogni caso del “lavoro creato”. Ma la realizzazione degli impianti, se inizialmente ha portato lavoro, dopo il mondiale potrebbe portare a un ingente indebitamento.
Prima dei mondiali l’Africa non aveva stadi anche solo abbordabili, adesso può vantarsi di alcune delle migliori strutture di tutto il mondo. Non le aveva per un semplice motivo: inutili! Le squadre sudafricane e le rispettive società hanno esigenze di gran lunga inferiori a quelle realizzate ad hoc per questo mondiale: se ieri giocavano in campi coltivati a patate, oggi si ritrovano tra le mani dei gioiellini invidiabili da chiunque. Gioiellini che faranno sicuramente effetto durante i mondiali… ma dopo? Con i soldi di chi verrà estinto il debito contratto? E non finisce qui: per quanto riguarda la manutenzione, qualcuno pagherà cifre esorbitanti per strutture inutili, oppure verranno abbandonate a loro stesse e diventeranno quindi delle classiche cattedrali nel deserto? Nessuna delle due possibilità sembrerebbe entusiasmare. Anche l’ipotesi “privatizzazione” sembrerebbe improbabile, sempre per lo stesso, identico motivo: quale privato acquisterebbe una struttura inutile ed inutilmente esosa?
Lo spiega anche l’intervista a Thembani Jerome, del movimento sociale Abahlali baseMjondolo (in zulu “quelli che vivono nelle baracche”): “la realtà delle baraccopoli non è cambiata dal 1994. Avevamo sperato di vivere in un’altra maniera, ma la situazione non è cambiata. Il governo ha costruito grandi stadi e grandi infrastruttre e non case per i poveri. Potremo andare a vedere una partita, ma torneremo in case senza acqua e servizi”. Ovvero “baracche”, volgarmente parlando.
Dunque, bene godersi il mondiale, per carità. Bene anche ignorare i problemi degli africani, speravo che le cose potessero andare diversamente, ma capisco che non è possibile. Ma allora si ignori del tutto la faccenda, non si contribuisca invece a fare quello che si fa sempre: raffigurare e diffondere l’idea di una realtà completamente opposta. Capisco che sia la cosa più conviente, ma se proprio non ci si vuole impegnare, tanto vale ignorare del tutto.
Un fallimento. E’ Un fallimento questo mondiale in cui il frastuono delle vuvuzelas non si limita a infastidire i tifosi ma deconcentra i calciatori e impedisce agli allenatori d’impartire ordini. In cui il pallone scelto è assurdo e ha rimbalzi ridicoli, è incontrollabile per i portieri e per gli attaccanti. In cui i tifosi riescono a penetrare negli spogliatoi delle nazionali e in cui gli stewards si scontrano con la polizia:
Ma il fallimento dei mondiali, che si cerca di mascherare in ogni modo, ha un effetto positivo: anziché celare, smaschera un altro fallimento sociale, esistenziale, politico: quello del Sud Africa che la cattiva coscienza occidentale ha cercato in tutti i modi di contrabbandare per un Paese gioioso, entusiastico e in crescita ma invece è una terra desolata in preda all’indolenza, all’incapacità, all’improvvisazione, alla miseria, alla rabbia, al fatalismo, all’istituzionalizzazione di ogni forma d’ingiustizia.