Michael Wolffsohn, ordinario di storia contemporanea all’università militare di Monaco, ha difeso la tortura.
«Secondo me la tortura o la minaccia della tortura è un mezzo legittimo nella lotta al terrorismo», ha detto il 5 maggio a un talk-show. «Con metodi da gentleman», ha aggiunto, non se ne potrà venire a capo, perché «il terrorismo non ha nulla a che fare con le norme del nostro ordinamento civile». Queste parole hanno giustamente suscitato una tempesta. L’accademia militare di Monaco, insieme a quella di Amburgo, forma gli ufficiali della Bundeswehr. Il deputato democristiano Willy Wimmer ha scritto al ministro della difesa per sapere «se le tesi del professore facciano parte dei programmi di studio». Il socialdemocratico Peter Struck assicura che quelle tesi sono «intollerabili». Il ministro ha convocato per questa settimana Wolffsohn a Berlino, ma dovrà probabilmente limitarsi a una ramanzina. Il professore si sente protetto dalla libertà d’insegnamento e di ricerca.
La biografia e la personalità di Wolffsohn, non nuovo a formulazioni estreme, complicano la disputa. E’ nato a Tel Aviv nel 1947 da genitori ebrei emigrati dalla Germania. Nel `54 la famiglia si trasferì a Berlino ovest, dove Wolffsohn ha studiato, con una interruzione per il servizio militare in Israele. Mentre la comunità ebraica si definisce come rappresentanza degli ebrei in Germania, Wolffsohn ci tiene a presentarsi come ebreo tedesco. Ai tedeschi rimprovera la rinuncia a pensare in termini nazionali. Per questo riscuote simpatie tra i conservatori. Ignatz Bubis, presidente della comunità ebraica scomparso da qualche anno, lo accusò di essere «l’ebreo modello per gli estremisti di destra». Ma ciò non toglie che Wolffsohn, come altri ebrei con un ruolo pubblico, sia bersaglio di risentimenti nazisti. In seguito al dibattito televisivo sulla tortura è stato sommerso da messaggi «con i peggiori insulti e perfino con minacce di morte», come ha detto a un settimanale.
Il professore ha innestato la retromarcia. Si rammarica per non aver marcato la differenza tra le sue «riflessioni scientifiche» e le notizie che giungono dalle carceri irachene. E «per non aver chiarito al di là di ogni dubbio la mia condanna morale e di principio di sadiche torture (come in Iraq e a Guantanamo)».
Pare che Wolffsohn deprechi maltrattamenti punitivi. E che rivendichi la tortura come estrema risorsa preventiva, per sventare piani terroristici, in circostanze d’«emergenza». Niente di nuovo. Quanti hanno praticato la tortura in passato l’hanno sempre giustificata come risposta d’«eccezione» a minacce incombenti, che fosse il complotto del diavolo o quello giudaico-bolscevico, o l’accerchiamento imperialistico, o la guerriglia comunista.
Né Wolffsohn è il solo a invocare l’«emergenza». A chi insiste per provvedimenti disciplinari contro il docente, perché la libertà d’insegnamento non esimerebbe dalla fedeltà alla costituzione (che considera «inviolabile» la dignità della persona), l’avvocato di Wolffsohn replica che lo stesso rimprovero si potrebbe muovere al ministro degli interni. Otto Schily, in un’intervista allo Spiegel, ha alluso all’uccisione «preventiva» di terroristi, a cui manda a dire: «Se amate la morte, potete averla».
Gli inviti a abbandonare i «metodi da gentleman» si moltiplicano. Durante un’audizione parlamentare nel 2002 l’allora responsabile della Cia per l’antiterrorismo, Cofer Black, dichiarò: «Dopo l’11 settembre ci siamo tolti i guanti». Nessuno avanzò obiezioni. Il 23 aprile la nostra camera dei deputati ha stabilito che la tortura è esecrabile solo «se ripetuta». Il professor Wolffsohn sfonda una porta aperta. Non si capisce cosa resti da discutere sul piano «intellettuale»: siamo alle esercitazioni pratiche