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Mare Monstrum secondo Polaris

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Il testo della conferenza di Roma sul Mediterraneo

L’attuale crisi del Mediterraneo è contrassegnata da rivolte e conflitti, che ha interessato tutta la costa sud, dall’Algeria alla Turchia.
E  si è sviluppata in due tempi, prima ad ovest poi ad est.

I primi scenari

I primi Paesi rivoluzionati sono stati Tunisia, Egitto e Libia.
Ci sono delle ragioni per il malcontento che si è prodotto?
Indubbiamente esistono alcuni fenomeni in comune. L’urbanizzazione accelerata, la pressione demografica senza sbocchi occupazionali (per intendere la pressione delle età si consideri che in Egitto un terzo della popolazione è sotto i 14 anni, in Tunisia stanno sulla stessa linea). Non esistono prospettive occupazionali per i giovani e inoltre la recente ondata di privatizzazioni ha peggiorato il quadro. Ma, in fondo, si tratta di questioni endemiche.
Deflagrante è stato invece  il caro-alimentari.
In Egitto, come ha rimarcato Alex Voglino, direttore della cultura alla Regione Lazio, fino al 2009 il 48% di un salario medio si spendeva in alimenti. Nel 2010 i generi di prima necessità, in particolare grano e cereali, è cresciuto di almeno il 52%. L’area è la massima importatrice di grano.
Le cause sono indipendenti dai governi, sono “globali”: le scommesse borsistiche sui futures (ovvero la scommessa sui prezzi futuri, la nuova perversione borsistica intervenuta dopo il crack dei subprimes), dice sempre Voglino, e la crescita del mercato interno asiatico che assorbe parte della produzione. Insomma: cause esterne cui si aggiungono i disagi dovuti alle ondate di privatizzazioni.
Tuttavia i casi sono simili ma non eguali. In Tunisia c’è molta più povertà che in Egitto mentre la Libia era un Paese dallo stile di vita abbastanza ricco. Dove, tra l’altro, l’analfebetizzazione era passata dal 94% al 24% della popolazione.

Le prime reazioni

Le reazioni sono state anche differenti. In Tunisia l’esercito ha optato per il rovesciamento del leader, in Egitto per un avvicendamento al vertice, in Libia ha sostenuto e continua a sostenere Gheddafi.
Anche le partecipazioni alle rivolte sono state differenti. In Tunisia è stata massiccia, in Egitto solo l’1,5% della popolazione del Cairo ha manifestato (in proporzione parliamo di meno di un corteo sindacale a Roma),  e neppure tutta contro Mubarak perché c’erano in piazza anche i governativi. In Libia le tribù cirenaiche si sono ribellate a Tunisi per spinta separatista.

I vettori

Indubbiamente, malgrado le notevoli differenze tra le situazioni, c’è stato un effetto macchia d’olio.
I media attribuiscono questo risultato ad Al Jazeera e al cosiddetto popolo di facebook. Dimenticando che nell’area solo il 5% della popolazione ha internet e è facile bloccarla (si pensi a quanto sovente salta Alice a Roma).
Sono state invece  prese sotto gamba le ripetute esternazioni americane. Obama e la Casa Bianca si sono vantati di aver sospinto le rivolte. D’altronde nei rapporti di Wikileaks emerge chiaramente che, per quanto riguarda l’Egitto, l’ambasciata americana lavorasse da tre anni a questa parte per rovesciare Mubarak.
In quanto agli interventi inglesi e francesi sono stati invece notati di più, ma senza darvi neppur qui il giusto peso.
Dobbiamo parlare allora non di rivolte ma di congiura?
Non propriamente. Il fatto è che perché si realizzi un cambiamento radicale di potere si deve presentare un ciclo del genere
Malcontento – Vuoto (o stallo) di potere – Intervento di un nuovo centro di potere, magari sostenuto dall’estero.
In assenza di una delle componenti il ciclo non si realizza.
Perché si realizzi servono tutte e tre.

Il caso egiziano

Abbiamo definito le ragioni oggettive del malcontento e d’isolamento dei poteri locali (cui sembra essersi però sottratta la Libia), restano da determinare le ragioni degli interventi dei centri di potere esterni. Dobbiamo calcolare quali interessi si siano coalizzati nella gestione delle crisi.
Prendiamo il caso egiziano. L’Egitto, si dice, è da sempre un partner affidabile per gli Usa e per Israele a che pro rischiare di destabilizzarlo?
Ecco alcune possibili ragioni.
Mubarak si era parzialmente allontanato da Washington in seguito al rovesciamento di Saddam che aveva considerato suicida. Nel 2010 si sono poi registrate una serie di svolte – in un Paese le cui banche sono uscite indenni dalla crisi finanziarie- quali:
l’accordo commerciale con il Mercosur, la costituzione di una camera di commercio turco-egiziana, alcuni accordi tecnologici e strategici con la Cina, l’intrusione finanziaria cinese a Suez e il sorpasso della Cina sugli Usa come partner economico dell’Egitto.
Cosa è avvenuto subito dopo?
Abbiamo un segnale forte: il britannico Cameron è stato il primo premier a recarsi in Egitto subito dopo Mubarak e, a marzo, si sono stabiliti accordi militari per  addestramenti comuni anglo-britannici.
E’ una svolta storica perché l’Egitto è lontano da Londra da sempre e di certo almeno dal 1956.
E perché l’Egitto è storicamente in opposizione irriducibile con l’Inghilterra. Il nuovo accordo segna quindi un mutamento sensibile.

L’Italia travolta

Mentre altri (Usa, Inghilterra, Francia) hanno perseguito i loro interessi nella crisi mediterranea dobbiamo rilevare che l’Italia è stata travolta.
Prima della crisi l’Italia si presentava come primo partner occidentale dell’Egitto dopo gli Usa, come primo soggetto IDE in Libia.
Dalla Libia dipende il 25% del nostro petrolio e il 15% del nostro gas.
La Libia era il nostro quinto esportatore e avevamo un giro d’affari previsto in una forbice tra i 350 e i 600 miliardi all’anno.
Alfredo Cestari, presidente della Camera di commercio ItalAfrica centrale ci ha annunciato una perdita già maturata tra incassi non realizzati e perdita secca, per le aziende italiane coinvolte nei settori, di 100 miliardi di euro e la necessità consequenziale di migliaia di licenziamenti.
Infine la Tunisia: eravamo il secondo partner commerciale dopo la Francia e Ben Alì lo avevamo messo su noi, esattamente come avevamo fatto con Gheddafi.
Ora è evidente che Inghilterra e Francia stanno ottenendo guadagni cospicui dalle crisi e che noi stiamo perdendo moltissimo.

Si allarga ad est

La crisi si sta allargando ad Est.
In Siria dove la posizione americana si salda con quella dei Fratelli Musulmani, i medesimi che sono stati soggetto della crisi egiziana. E dove Israele non guarda di cattivo occhio i salafiti, quegli “irriducibili” jihadisti internazionalisti che si addestrano in Kosovo. In Turchia dove si è appena consumato un attentato ai danni del premier Erdogan e poi su tutto il Mar Rosso, area essenziale di traffici e in cui si è anche sviluppata l’avanzata dell’influenza cinese.

Le cause non dichiarate

Assistiamo allora ad uno scenario di Risiko?
Di certo i players stanno giocando diverse partite.
Da parte americana c’è inquietudine per l’avanzata cinese in Africa e si sente anche la necessità di stabilire linee di demarcazione definendo nuove distribuzioni di zone d’influenza. Vieppiù ora che il Congresso ha dettato tagli alle spese della difesa che, invece, Russia e Cina non stanno effettuando.
Di sicuro, in una logica di egemonia in un contesto multipolare, che tale è la pretesa strategica di Washington, bisogna piuttosto sospingere Inghilterra e Francia ad un maggior peso che non accettare una reale distribuzione europea o lasciar spazio ad un alleato ultimamente un po’ eretico quale si è dimostrata l’Italia soprattutto nelle strategie energetiche.
Difatti non si tiene mai nel dovuto conto la questione centrale della politica mondiale di oggi, che è al contempo questione energetica e geostrategica e si svolge soprattutto intorno alla sfida tra i gasdotti o pipelines.

Il conflitto delle pipelines

La sfida geostrategica si gioca principalmente tra il progetto Nabucco e il progetto South Stream.
Il progetto Nabucco tende a portare il gas in Europa partendo dall’Azerbaijan e dall’Iran attraverso la Turchia. Segue l’antica via della seta e ha l’effetto d’indebolire i rapporti tra Russia ed Europa riducendo le rispettive autonomie.
Il progetto South Stream farebbe invece partire il gas dalla Russia e, attraverso le acque territoriali turche, servirebbe l’Europa rafforzando invece le relazioni eurorusse.
Probabilmente si finirà con lo sviluppare ambedue le pipelines ma il primo progetto realizzato influirà enormemente su tutta la geografia politica futura.

Le dottrine strategiche

Per capire l’importanza della questione bisogna tenere in conto la dottrina politica americana oggi in atto.
Essa si fonda in primis sulla dottrina Brzezinski definita dopo la caduta del Muro di Berlino. In sintesi: gli Usa per mantenere l’egemonia devono evitare che altri players si uniscano tra loro e deve assicurarsi il controllo del cuore della “grande scacchiera” che si trova in Asia Centrale e si snoda tra Kazakhstan Kirgizstan, Turkmenistan, Tajikistan, Uzbekistan (ovvero accanto ad Iran, Pakistan Afghanistan e Azerbaijan). Ecco, quindi, che per questa dottrina il progetto Nabucco è essenziale e quello South Stream è una sciagura.
E’ poi intervenuto il “Rapporto Cheney” scritto negli anni ’90 da parte di colui che sarebbe in seguito divenuto il primo vicepresidente di Bush jr.
Il rapporto in sostanza denuncia la minaccia di esaurimento delle scorte di petrolio che detta agli Usa una duplice necessità: appropriarsi di tutte le sorgenti energetiche, anche di quelle cui si riforniscono gli alleati, per mantenere una posizione di privilegio e operare per far impennare i prezzi del petrolio al fine di favorire così l’estrazione del petrolio in profondità che è più caro e che è presente in Usa, nonché lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini.
Dal 2001 in poi gli Usa non hanno mai smesso di perseguire la politica fondata sulle tesi di Brzezinski e Cheney.
Ecco che, oltre ai soliti pozzi, diventano centrali le arterie energetiche che partono dall’Asia Centrale. Il che si collega alla considerazione di fondo. Non si deve creare complementarità tra Europa e Russia (né tra Russia e Cina) ma tutti i players devono collaborare separatamente con gli USA

Attenzione alle date

Restando all’area e per capire quanto conti la questione delle pipelines si faccia attenzione alle date.
Il progetto Nabucco fu definito nel 2002.
Il progetto South Stream, effetto dell’accordo tra Eni e Gazprom, è del 2007.
Sempre nel 2007 al largo di Cipro si scoprono giacimenti di gas sottomarino che vengono considerati destinati a collegarsi con il South Stream
Nel 2009 ad Ankara Berlusconi, Erdogan e Putin siglano l’avanzamento lavori del South Stream e bruciano sui tempi il Nabucco.
Bene ora leggiamo le date in altra maniera.
Nel 2007 la stampa israeliana inizia a sostenere che Egitto e Siria sono i principali nemici di Israele
Nel 2008 l’ambasciata americana inizia a operare al Cairo per il rovesciamento di Mubarak.
I Paesi coinvolti nello sfruttamento dei giacimenti a largo di Cipro sono Turchia, Cipro, Libano, Siria e si parla di un collegamento energetico anche con l’Egitto
Il serrate paranoico e ininterrotto contro Berlusconi inzia  nel 2009 proprio pochi giorni dopo gli accordi di Ankara e non si placa mai fino ai bombardamenti in Libia.

Altri interessi

Certamente non si può ridurre tutto a questo conflitto.
Per il caso libico va anche tenuto conto degli interessi di gruppi finanziari e grandi banche per il congelamento di due miliardi di fondi sovrani; ottimale in questa crisi globale.
Ma non solo, come hanno rivelato alcuni operatori locali in una conferenza tenuta in Milano all’Officna Coviello, essi erano stati destinati principalmente al finanziamento degli organismi dell’unione africana (FMA, BCA, Banca degli invstimenti) la cui istituzione comporterebbe una stabilizzazione monetaria con la contestaule fine del Franco CFA (moneta di scambio per 14 ex colonie francesi) segnando cossì il declino di un dominio finanziario garantito ai francesi fin dagli accordi di Bretton Woods (dicembre 1945).
Poi ci sono altre ragioni come il revanscismo francese visto che Parigi ha mire sulla Libia fin dal 1911 e ha sempre dovuto mordere il freno per colpa nostra. E a completare il quadro del sostegno occidentale alle insorgenze cireniche c’è l’espansionismo di British Petrol e Royal Dutch verso i pozzi del golfo della Sirte.

Le guerre sporche

Al di là degli accordi internazionali e degli organi preposti alla cooperazione, sono in gioco interessi enormi, spesso inconfessabili, non solo da parte di giganteschi gruppi privati ma anche di potenze.
Abbiamo avuto modo, come centro studi,  attingendo anche a pubblicazioni internazionali sullo stato del narcotraffico, di documentare gli intrecci esistenti tra gruppi militari, terroristi o indipendentisti, traffico di droga, riciclaggio e arterie energetiche. Generalmente il tutto si sviluppa intorno alle fonti energetiche. E, nel concerto di relazioni diplomatiche, gruppi e potenze si combattono asimmetricamente anche mediante gruppi terroristici.

Gli intrecci inconfessati

Esiste molto non detto nella politica del dopoguerra. Si pensi allo stragismo. Come ha fatto ben notare il giudice Priore (quello di Ustica e del Caso Moro), a differenza di quanto propone la vulgata sostenuta dal vecchio Pci le stragi sono state quasi sempre azioni di guerra sporca per il controllo del Mediterraneo. Lo affermò anche il ministro per il commercio estero dell’epoca craxiana, Rino Formica.
Le stragi non furono solo questione italiana. Si pensi che in Francia nello stesso periodo di quelle subite da noi ce ne furono ben 15.
Le nostre tensioni con Londra, in seguito alla scelta di mettere in sella Gheddafi, e con la Francia furono lunghe e continuative. Con la Francia abbiamo la questione in sospeso di Ustica ma anche il nostro finanziamento e la nostra protezione per gli indipendentisti corsi, cui offrimmo persino antenne radio “clandestine” e l’intervento dei nostri soldati contro quelli francesi nella guerra del Tchad.
En passant si calcoli che il capo dei ribelli ciadiani, un integralista islamico coinvolto in traffico di droga ha poi ottenuto asilo politico negli Usa.

Le piaghe non sanate intorno al Mediterraneo

Tutte le formazioni in armi, con l’unica eccezione di Karen, partecipano in qualche misura al traffico di stupefacenti. Addirittura il PKK curdo è presente (ed è l’unico caso) in tutte le fasi del ciclo (produzione, raffinazione, trasporto, spaccio e riciclaggio).
L’Uck, altro esercito narco, ha ottenuto il sostegno della Nato e oggi abbiamo il Kosovo.
Mafie curde e albanesi sostenute da capitali internazionali fanno il bello e il cattivo tempo e proprio intorno all’arteria strategica.
Non si notano politiche per cercare di affrontare le piaghe del Mediterraneo che semmai si moltiplicano.
Le esazioni contro le minoranze serbe nel Kosovo (ivi compresi gli assassinii continuativi di civili e il raffico di organi sulle loro spoglie), la follia della “green line” che divide Cipro ancor preda di un’assurda guerra di religione, le condizioni in cui versa la popolazione palestinese non hanno riposte nemmeno teoriche.
E si noti che si tratta di casi forse tra loro simili ma in cui il prepotente cambia di volta in volta e di volta in volta cambia l’oppresso sia per etnia che per religione e che dunque non può essere spiegato con il demagogico ritornello dello “scontro di civiltà”.
Ma più ci si avvicina ad arterie della droga e dei flussi energetici più si acuiscono questi “scontri di civiltà” ed è da notare come quelli testé citati che minacciano l’Europa si sviluppino tutti attorno all’antica Via della Seta, oggi arteria del narcotraffico e pullulare di elementi destabilizzanti.
Domani, se prevale la volontà americana, anche percorso del Nabucco che diventerebbe così il percorso della nostra distruzione.

Lo scacco europeo

Ancora prigioniera di queste logiche inconfessate e di questi “provincialismi criminali” l’Europa nella crisi oggi in atto ha dimostrato di essere vicina al fallimento.
In primo luogo va rilevato che il cosiddetto “polo carolingio” realizzato da Kohl e Mitterrand sembra un  pallido ricordo. La Germania si sta rivolgendo ad est quasi da sola mentre Parigi si è sempre più avvicinata a Londra e questo ha prodotto uno strabismo della UE.
La cosa è ancor più notevole se si pensa che solo tre anni fa l’UE dimostrò grande coesione per la questione georgiana e che oggi invece appare sgretolata. E nel pieno della crisi della “zona B” dell’Euro con i fallimenti del Portogallo e della Grecia in atto sotto gli occhi di un Fondo Monetario bloccato dal caso Strauss-Kahn e avviato, con il suo successore, ad una linea più consona agli interessi del Dollaro.

E l’Italia?

In Italia stiamo già pagando il conto. Esattamente come ha detto Alfredo Cestari ma anche in altre voci. L’immigrazione selvaggia, se prosegue ai ritmi dell’ultimo fine settimana dà un milione in un anno solo da Lampedusa.
Il caro-benzina.
E poi lo stesso “piano Marshall” previsto per risolvere la questione nord-africana; un piano che rischia di produrre ulteriori delocalizzazioni e ulteriore immigrazione. Specie se non esiste alcuna politica protezionistica sulla concorrenza sleale, magari anche solo basata sulla certificazione delle condizioni di produzione del prodotto che vietino l’inadempienza sulla dignità del lavoro.
La concorrenza insostenibile e gli incentivi alla delocalizzaione possono indurre le nostre imprese a ulteriori tagli massicci che, uniti alla nuova pressione migratoria, daranno dei costi sociali insostenibili.
Intanto la nostra dipendenza energetica si accresce.
E ci troviamo in condizioni di scacco strategico.

Una politica italiana?

Una politica per l’Italia è possibile?
Certamente: è una politica naturalmente rivolta a sud e ad est, per geografia, storia e cultura; uomini di diversa estrazione politica l’hanno delineata in questo secolo e mezzo: Crispi, Mussolini, Mattei, Moro, Craxi.
Qui abbiamo anche la foto di Filippo Anfuso che alcuni di voi ricorderanno. Era l’ambasciatore in Ungheria che nel 1943 rimase fedele a Mussolini il quale lo nominò ambasciatore a Berlino.
Nel dopoguerra fu deputato del Msi e fu scelto dagli egiziani come l’uomo delle transazioni economico-diplomatiche con l’Italia. Va detto che mentre si trovava ingiustamente detenuto in Francia nel 1945 fu lui ad entusiasmare per il mondo arabo lo storico francese Benoist-Méchin condannato a morte per collaborazionismo e che, in seguito, graziato, influenzò la politica francese del dopo Suez. Ricordiamo che per la crisi di Suez il Msi sostenne appunto Nasser e che sarebbe errato consegnare l’esperienza missina alla storia con la meschina figura anti-nazionale tenuta in occasione della vicenda di Sigonella, questo rarissimo caso di fierezza  italiana post-bellica che mi ha spinto a lanciare la proposta provocatoria di spostare la data della festa nazionale dal 25 aprile all’11 ottobre.
Una politica per l’Italia è possibile; si tratterebbe di operare per costituire il polo sud d’Europa a patto che sia complementare al polo carolingio che dev’essere rilanciato e che sviluppi le cooperazioni con il mondo arabo e le direttrici preferenziali. energetiche e strategiche, verso le potenze non UE Turchia e Russia, sostenendo innanzitutto e contro ogni avversità il South Stream.
Certamente tutto ciò è difficile perché gli uomini che hanno perseguito una politica italiana hanno pagato sempre un caro prezzo perché aspirare all’indipendenza è francamente pericoloso.
Possibile è possibile, ma  canta Battiato che “la famiglia è in crisi per mancanza di padri” e temo che l’Italia sia in crisi per mancanza di uomini.

Gabriele Adinolfi
per il Centro Studi Polaris
Roma, 19 maggio 2011
Museo Crocetti.
Ospita l’associazione M.Arte
intervengono nella stessa occasione:
Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri
Federico Guidi, Presidente comm. bilancio, Comune Roma
Roberto Rosseti, giornalista Rai
 

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