E tante isole che Pechino inventò
Prosegue con costanza la penetrazione cinese nello specchio d’acqua conteso del Mar Cinese Meridionale: a Lankiam Cay, conosciuta come Panata Island nelle Filippine, Whitsun Reef e a Sandy Cay, sono stati osservati cambiamenti fisici che sono il risultato dell’attività di posa di sedimenti, effettuata per strappare più terraferma al mare in modo da costruire infrastrutture sugli atolli.
Le foto satellitari diffuse da Bloomberg News e ottenute da fonti della Difesa statunitense, raffigurano inoltre una nave cinese che scarica un escavatore idraulico anfibio, lo stesso utilizzato nei progetti di bonifica cominciati nel 2014 a Eldad Reef, isola delle Spratlys settentrionali. Dopo la prima fase di costruzione di isole artificiali, la Cina ha proceduto nella loro militarizzazione una volta erette tutte le infrastrutture necessarie, come piste di decollo e scali portuali.
Pertanto in un lasso temporale abbastanza ampio, si è determinata una pausa nell’espansione dell’occupazione delle isole nel Mar Cinese Meridionale, ma nell’ultimo anno nuove formazioni di terra sono apparse in altri atolli situati in quel mare conteso. Alla richiesta di rispondere in merito a quanto osservato, il ministero degli Esteri cinese ha dichiarato: “Il rapporto in questione è puramente fatto dal nulla”.
La Cina rivendica la sovranità su oltre l’80% del Mar Cinese Meridionale sulla base della cosiddetta “Nine Dash Line” (Linea dei Nove Tratti): una demarcazione risalente al periodo immediatamente successivo al termine della Seconda Guerra Mondiale che ne riprende una ancora precedente, datata 1935. Questa divisione, del tutto arbitraria, esula dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (Unclos) – ratificata dalla stessa Cina peraltro – che limita le acque territoriali a uno spazio non superiore alle 12 miglia nautiche dalla costa. Il diritto internazionale ha istituito anche, nel 1982, quella che si definisce Zona di Esclusività Economica (Zee), ovvero la porzione di mare adiacente alle acque territoriali, che può estendersi fino a 200 miglia dalle linee di base dalle quali è misurata l’ampiezza del mare territoriale. Uno Stato costiero, pertanto, può rivendicare diritti esclusivi di sovranità in materia di esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse ittiche oltre ad avere giurisdizione in materia di installazione e utilizzazione di isole artificiali, impianti e strutture, e può adottare leggi e regolamenti in molteplici settori. Tuttavia non si può impedire agli altri Stati la navigazione e il sorvolo della Zee, come pure il suo utilizzo per la posa di condotte e cavi sottomarini. La maggior parte del Mar Cinese Meridionale cade al di fuori del limite delle 200 miglia della Zee cinese, ma nonostante questo Pechino avanza da tempo diritti di sovranità su quasi tutto quello specchio d’acqua, che si estende sino ai vitali accessi dello Stretto della Malacca.
Per questo la Cina è entrata in contrasto con gli altri Stati rivieraschi, in particolare con Vietnam, Filippine, Indonesia e Malesia, che non intendono accettare questa prevaricazione del diritto internazionale, supportati dagli Stati Uniti, che si sono sempre eretti a garanti della libertà di navigazione dei mari e dei cieli.
Soprattutto, molto prima del recente aumento delle tensioni, nel 2002 Pechino aveva firmato una “dichiarazione di condotta” non vincolante con le nazioni del sud-est asiatico che invitava le parti ad astenersi da “l’insediarsi su isole, scogli, banchi, isolotti e altre peculiarità attualmente disabitate”. Nel 2016, un tribunale internazionale sostenuto dalle Nazioni Unite stabilì che le rivendicazioni della Cina non avevano basi legali. Pechino, in quella occasione, respinse la sentenza, affermando che il tribunale non aveva giurisdizione e ha continuato la sua politica di penetrazione nell’area.
Una penetrazione lenta ma costante, mantenuta “di basso profilo” o come si dice nell’ambiente militare “al di sotto della soglia del conflitto”. Pechino, infatti, utilizza per mettere davanti al fait accompli la comunità internazionale la sua imponente flotta da pesca che viene scortata da unità della Guardia Costiera. I pescherecci cinesi, però, sono spesso e volentieri armati e operati da quella che è una vera a propria milizia paramilitare.
Il principio è infatti quello dell’Hybrid Warfare, qui applicata in modo da avere una negazione plausibile nel contesto giuridico internazionale in caso di risposta armata da parte di qualcuno degli altri Paesi rivieraschi o degli stessi Stati Uniti, che stanno sostenendo l’impegno del rispetto delle norme del diritto internazionale per quanto riguarda la libertà di navigazione.
Proprio da quest’ultimo punto di vista, la Cina ha stabilito a settembre del 2021 che che diverse categorie di navi debbano comunicare i propri dati alla Guardia Costiera cinese (Msa – Maritime Safety Administration) prima di entrare nel Mar Cinese Meridionale. Il primo vero passo verso la nazionalizzazione di quel mare.
Passi lenti ma costanti, come accennato, che si inquadrano perfettamente nella politica assertivo/aggressiva cinese definita “salami slicing” (traducibile come “dell’affettare il salame”): tanti piccoli eventi che, singolarmente, non rappresentano un casus belli ma che tutti insieme permettono di ottenere un risultato strategico. Questa metodologia dovrebbe essere ben studiata e compresa, nella sua declinazione nel Mar Cinese Meridionale, perché caratterizza l’agire cinese in tutti gli ambiti della politica estera, anche in quelli non militari come il settore commerciale. La penetrazione cinese è sempre lenta e costante, e come la famosa “gutta” che “cavat lapidem” ottiene risultati su un orizzonte temporale lungo: del resto anche i piani economici e sociali di Pechino hanno obiettivi fissati al 2050 e oltre.
Paolo Mauri