Adesso, al Pentagono si teme che gli Stati Uniti possono perdere la guerra già vinta. Dopo oltre 400 giorni di combattimenti e d’occupazione, l’esito del conflitto appare incerto ai generali che operano sul terreno: c’è il rischio di non centrare gli obiettivi strategici, che decidono i politici.
Il dubbio serpeggia fra i generali: le perdite sul terreno sono più del doppio di quelle della Guerra del Golfo del ’91 e la rivolta delle milizie sciite s’è sommata alla resistenza degli irriducibili sunniti. E lo scandalo delle torture rende più difficile ottenere l’appoggio degli iracheni.
La Casa Bianca, messa sotto pressione politica proprio dalla vicenda delle sevizie inflitte a detenuti iracheni da militari americani, preme sulle Nazioni Unite perché l’Irak, dopo il 30 giugno, cioè dopo il passaggio dei poteri dalle forze d’occupazione a un esecutivo iracheno, abbia un governo di politici e non solo di tecnici. Ma chi siano i politici rappresentativi dell’Irak oggi è difficile dire.
A scavare fra i rovelli di generali e ufficiali superiori delle forze armate degli Stati Uniti, è il Washington Post. Al Pentagono – scrive il giornale – si comincia temere che gli Usa in Irak abbiano la prospettiva di subire uno stillicidio di perdite per anni, senza riuscire a centrare l’obiettivo finale di un Paese libero e democratico: il che sarebbe una sconfitta strategica.
Secondo il giornale, “profonde divisioni stanno emergendo al vertice delle forze armate degli Stati Uniti sulla strategia d’occupazione dell’Irak e sulla conduzione delle operazioni”.
E divisioni esistono, fin dall’inizio, nell’amministrazione del presidente Gorge W. Bush: l’ultimo esempio delle frizioni fra il Dipartimento di Stato e il Pentagono è il fatto che Colin Powell non era stato informato dell’intenzione di Bush e di Donald Rumsfeld di chiedere al Congresso fondi supplementari per 25 miliardi di dollari per il conflitto iracheno.
La preoccupazione più concreta dei militari è che l’America finisca col prevalere militarmente, ma non conquisti l’appoggio degli iracheni. È un punto di vista non unanime, anzi ancora minoritario al Pentagono, ma che si sta diffondendo e che viene anche espresso in modo pubblico.
Il Washington Post, infatti, cita alti ufficiali che non si trincerano dietro l’anonimato.
Il generale Charles H. Swannack Jn., comandante della 82.a divisione aerotrasportata , un’unità che ha trascorso l’ultimo anno nel Irak occidentale, subendo perdite non trascurabili, crede che l’esercito americano stia ancora vincendo la guerra al livello tattico. Ma a chi chiede se gli Stati Uniti stiano perdendo il conflitto strategico, risponde: “Credo che, strategicamente, stiamo perdendo”.
Il colonnello Paul Hughes, che è stato il primo direttore della pianificazione strategica per l’Autorità d’occupazione americana in Irak, condivide la visione di Swannack e nota l’emergere in Irak di una tendenza a vincere le battaglie, ma a perdere la guerra, com’era già accaduto in Vietnam. “Se non garantiamo coerenza alla nostra politica, saremo strategicamente sconfitti”.
I militari, dunque, chiamano in causa i politici: il fallimento sarebbe dell’Amministrazione, non delle forze armate. Sorpreso dalla recrudescenza degli scontri, che nessuno si aspettava così intensi e così letali, a oltre un anno dalla caduta delle regime di Saddam Hussein, Bush – s