lunedì 14 Ottobre 2024

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La Cassazione opera un giro di vite nei confronti dei funzionari che ostentano “la persistente inerzia” e sottolinea che è reato manifestare un “perdurante e patologico rifiuto di esercitare i doveri del proprio status e del proprio ufficio”. In questo modo, la Sesta sezione penale ha convalidato la condanna ad un anno di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio e per interruzione di pubblico servizio nei confronti di M.G.N., ufficiale giudiziario 46enne addetta all’ufficio notifiche penali, che sostenendo di essere oberata da una mole di lavoro, rifiutava con “ostentazione” di effettuare le notifiche, facendole con ritardo a volte di mesi, a volte di anni.
Quasi una sorta di emula dell’indimenticabile ‘Bartleby lo scrivano’ di Melville, M.G.N. nonostante i ripetuti solleciti del dirigente di ufficio ometteva la notifica di numerosi atti provocando così ritardi alla giustizia. Denunciata, la funzionaria, in parziale riforma della sentenza di primo grado, veniva condannata ad un anno di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche dalla Corte d’appello di Firenze, il 27 aprile 2007, per i reati puniti dall’art. 328 c.p. e 340 c.p..Contro il doppio giudizio di colpevolezza, M.G.N. ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che non era provato il danno alla giustizia e che in ogni caso lei era “molto lenta” e sommersa da una “enorme mole di lavoro con una drammatica carenza di personale”.
Piazza Cavour – sentenza 8996 – non ha accettato la tesi difensiva e, bocciando il ricorso di M.G.N., ha evidenziato che “il rifiuto di atti di ufficio non sanziona penalmente la generica negligenza o la scarsa sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma il rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo, per la tutela dei beni pubblici, rispetto ai quali gli sono state conferite proprio quelle funzioni”.
Dunque, dice piazza Cavour, “è del tutto evidente l’irrilevanza degli accertati livelli di utile operosità dell’imputata, delle sue caratteristiche di personalità, in termini di non alacrità, lentezza, scarsa organizzazione, posto che, quello che nella vicenda si è verificato non è il ritardo differenziale e da confronto, che in tutte le attività professionali intercorre tra persone di diversa dotazione psicofisica e corrispondente risultato di lavoro, ma un inammissibile, perdurante e patologico rifiuto di esercitare, in termini minimale, i doveri del proprio status e del proprio ufficio”.
In questa ottica, segnala ancora la Suprema Corte, “la soggettività dell’inadempiente pubblico ufficiale trova compiuta espressione appunto nell’ostentata e persistente inerzia, nonché nella indifferenza ai richiami formali del dirigente e dell’autorità giudiziaria, ai quali non si è opposta alcuna giustificazione ragionevole che non fosse quella del ‘comodo non fare’ di cui vi è sovrabbondante traccia nelle centinaia e centinaia di atti non notificati o con ritardi”.

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