Abbiamo già commentato amaramente sia la stangata economica governativa sia la retorica delle opposizioni e non vi è ragione per ripeterci.
Ma il dibattito “politico” che ne è conseguito non può non dettarci alcune considerazioni in margine.
Il commento critico che più si sente riguardo la manovra è che questa sarebbe “iniqua”; il che non è esatto. La manovra colpisce un po’ tutte le fasce, da quelle medio-alte penalizzate nel reddito, ai dipendenti pubblici, dalle lavoratrici di ogni ceto che vedranno ritardata l’età pensionabile, al cittadino comune che pagherà i tagli al cosiddetto welfare. Né sarà esente da affanni la ripresa economica che forse non ci sarà.
Iniquo non è davvero il commento più calzante. Le qualifiche giuste per questa manovra sono: drastica, compromissoria, non solutoria e probabilmente tutt’altro che indispensabile.
Che sia drastica è evidente.
Che sia tutt’altro che indispensabile, ma dettataci dall’estero con l’avallo di una delle punte del partito anti-nazionale, Draghi, sembra essersene accorto soltanto Bossi.
Che non sia solutoria è palese perché si può tagliare qualsiasi spesa e fare qualunque sacrificio ma serve un perché, è necessaria una prospettiva che non può essere solo quella di accontentare i tecnocrati internazionali e i ratti del rating.
Che sia compromissoria è evidente proprio dal fatto che colpisce un po’ tutti e ciascuno un po’ meno di quello che ogni singola categoria, in tutela di se stessa, pretendeva per le altre.
E ne è comprova l’irritazione di Montezemolo che richiedeva maggiori privatizzazioni, ovvero maggior liquidazione della nazione e dello Stato, e ciò in calce ad un provvedimento che va esattamente in quella direzione.
Ed è questo il punto dolente che sembra nessuno voglia sottolineare.
La manovra, nel liquidare parte dell’amministrazione pubblica e nel mettere in liquidazione, a vantaggio dei soliti compratori-usurai, una serie di beni nazionali, centra due o tre obiettivi nefasti.
Il primo è che ciò che è pubblico, statale, comune, è davvero oggi a rischio di sopravvivenza.
Il secondo è che, non accompagnandosi la manovra con la trasmissione coatta del cinque per mille dall’associazionismo alle strutture pubbliche, anzi, restando quel cinque per mille del tutto invariato, per conseguenza s’incoraggia la sostituzione dello Stato e dei suoi compiti con i privati, spesso a fede o struttura internazionale, facilitando sia la de-socializzazione che la de-nazionalizzazione.
Infine, l’intera architettura della manovra penalizza le forze piccole e medie andando incontro a quel matrimonio tra oligarchia iper-ricca e proletarizzazione che la globalizzazione capital-comunista sta propugnando, allargando le forbici economico-sociali.
A riprova dello spirito anti-nazionale sta anche il fatto che si liquideranno una serie di provincie mentre avrebbe avuto molto più senso accorpare tra loro varie regioni, se proprio si voleva tagliar qualcosa, e controbilanciare così la tendenza federalista (che ci auguriamo vada alla tedesca) con la solida connessione tra centro e periferie che proprio le provincie, se impostate come si deve, garantirebbero.
Ma si è fatto l’esatto contrario.
Questo è tutto. Di aggettivi a commento ce ne vengono molti, ma iniquo ci pare davvero il meno adatto: un espediente demagogico per criticare senza criticare e per avallare quest’ulteriore pugnalata alla nostra esistenza come popolo e nazione.