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Segnali di guerra

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Golpe, controgolpe e debolezza della sinistra

Silvio Berlusconi è alle corde. Incalzato dai giudici, da un bel pezzo del mondo editoriale, dai nuovi “girotondi”, dalla piazza. Da molto molto tempo un presidente del Consiglio non si trovava in una situazione così difficile. Sull’orlo della disfatta. E’ curioso che sia così. E’ curioso se si considera che Berlusconi ha ottenuto poco più di un anno fa un successo elettorale di proporzioni paragonabili solo a quelle del 1948 (il trionfo della Dc), governa col sostegno di un Parlamento nel quale dispone di una maggioranza solidissima, e soprattutto agisce in totale assenza di opposizione parlamentare. Nessuno mai si era trovato in condizioni così favorevoli. Eppure…
Ieri in modo formale gli uomini di Berlusconi hanno parlato di tentativi di golpe. Cosa intendono dire? Semplicemente denunciare una serie di manovre politiche per costringere il premier alle dimissioni, ribaltare il risultato delle urne e insediare un governo di unità nazionale. E’ vero che sono in corso queste manovre? E se è vero, chi partecipa e con quali possibilità di riuscita? E se è vero, come si prepara Berlusconi a controbattere?
Diciamo che è abbastanza complicato sostenere che le voci siano tutte infondate. E’ chiaro che è iniziata una azione politica che punta al cambio di governo. E vorrebbe evitare le urne, perché i sondaggi dicono che le urne potrebbero riconsegnare la maggioranza a Berlusconi.
Il fatto che un certo numero di “pezzi” della politica – in particolare tra le forze centriste – siano sempre in azione per “scalzare” il governo in carica, è una caratteristica della politica italiana. Da quando è nata la Repubblica la “congiura” contro il governo è un elemento del Dna di questo Paese. Nella Democrazia cristiana era l’abitudine. Il sistema maggioritario non ha cambiato le cose.
In genere queste congiure, ai tempi della Prima Repubblica, non avevano assolutamente nulla di golpista. Nel senso che finivano per essere esse stesse elemento di stabilità. La “brevità” della vita dei governi era un elemento che garantiva la dinamicità della classe politica ed era accompagnata da una straordinaria stabilità “strategica”. In che senso? Cambiavano i premier ma non cambiavano né il ceto politico né le linee di governo.
Ci fu una sola eccezione. Nel 1964. Quella volta la congiura effettivamente sfiorò il golpe. Puntava a stravolgere i programmi di governo. Impegnò forze esterne al governo e alla politica, coinvolse i carabinieri, fu diretta dal Quirinale (presidente il Dc di destra Antonio Segni). Cosa successe? Che la minaccia di una svolta autoritaria e di un intervento dei carabinieri sospinse il Psi – che da poco faceva parte di una maggioranza di centrosinistra – a rinunciare alle sue pretese radicalmente riformiste. Il golpe, in quell’occasione (diciamo l’autogolpe, perché fu guidato dai Dc al governo) riuscì perfettamente. Il centrosinistra cambiò natura. I suoi ingegneri (Ruffolo, Lombardi, lo stesso giovane Gino Giugni, che è morto proprio ieri) furono messi alla porta, e anche Nenni e Giolitti abbassarono le loro pretese.
Oggi è diverso? Sì, oggi la situazione è opposta. Non c’è nessuna minaccia riformista in atto, ma c’è invece una lotta feroce, puramente di potere, all’interno delle classi dirigenti. Che si sono divise in due tronconi e che non trovano più nessuna via di mediazione. Fino a circa un anno fa questi due tronconi avevano stabilito il modo di convivere, anche perché privi di grandi dissensi strategici. Probabilmente è stato l’esplodere della crisi a ridurre i margini di compromesso; l’impressione è che non ci sia abbastanza ricchezza per tutti, e che nei prossimi mesi si deciderà in che direzione andrà indirizzata la ricchezza, e quindi quali settori delle classi dirigenti (dell’imprenditoria, della finanza) siano destinati a crescere e quali a deperire, e che queste decisioni saranno pesantemente influenzate dal potere politico e che il potere politico è in mano al leader di uno di questi due tronconi, che intende usarlo a favore della sua parte. E così non va. E l’accordo non è possibile, e quindi è guerra.
Il nuovo golpismo nasce da qui. Ciascuno vuole vincere in modo definitivo. E allora gli antiberluscones (guidati da De Benedetti e Montezemolo, per fare i due nomi più illustri, ma che hanno dalla loro parte uomini e forze notevoli nell’impresa, nella finanza, nella magistratura e nell’informazione) puntano al rovesciamento del governo. In assenza di opposizione politica, hanno lavorato in forma “diretta”, usando soprattutto i propri giornali e, recentemente, avventurandosi in un’impresa inedita: l’uso della piazza.
In passato lo avevano fatto una volta sola (e fu vincente): Torino, 14 ottobre 1980, la marcia dei quarantamila “colletti bianchi” che stroncò la resistenza degli operai della Fiat e segnò la più rovinosa sconfitta per i sindacati confederali (che da allora ancora non si sono ripresi).
Gli antiberlusones non vogliono le elezioni, perché su quel terreno non si sentono sicuri. Puntano al classico governo “bipartisan”. Potrebbero affidarlo a Draghi, o allo stesso Montezemolo, o – irrompendo nel campo di Berlusconi e puntando alla vittoria totale – a Gianni Letta o a Giulio Tremonti.
Hanno le forze per vincere? Non si sa, ma hanno forze notevoli. In realtà i due schieramenti sono abbastanza equilibrati: l’imprenditoria è divisa, metà di qua e metà di là, e così la finanza e la Chiesa. Diciamo che sul piano dei poteri forti c’è “par condicio”. I debenedettiani però dispongono della magistratura e dei giornali, cioè delle testate più importanti (Repubblica, Corriere, Stampa, Sole, Messaggero). I Berluscones, da parte loro, non hanno di sicuro i giudici, non hanno i giornali ma sono naturalmente molto forti in Tv. Controllano cinque reti su sette. In ogni caso, apparentemente, sono in svantaggio. Qual è il loro vero punto di forza? Al momento è il consenso popolare. Almeno, così dicono tutti gli istituti demoscopici i quali pensano che se ci fosse una confrontation senza mediazione Berlusconi avrebbe la meglio.
Proprio per questa ragione, tutto lascia pensare che Berlusconi a quello punti: alle urne. E se ancora non lo dice è perché teme che questa strada gli sia sbarrata dal Presidente della Repubblica e da una alleanza parlamentare che saldi i partiti di opposizione (finora fuori da tutti i giochi, ma che con il congresso del Pd potrebbero rientrare in scena) con un pezzo anche non grandissimo della sua maggioranza.
La situazione, come capite, è paradossale. Se vincono i nemici di Berlusconi, il premier avrà buon gioco a gridare al golpe. Il fatto che si insedi un governo osteggiato da chi ha innegabilmente vinto le elezioni in modo quasi plebiscitario, non è normale in democrazia.
Se invece vince Berlusconi, e ottiene che si vada alle urne, e poi vince le elezioni, è molto probabile che si venga a trovare a quel punto in grado di fare quello che vuole in Parlamento, senza neppure più le opposizioni interne, e quindi che possa coronare il suo disegno di modifica costituzionale e di trasformazione della nostra democrazia in una democrazia con un tasso di autoritarismo molto superiore.
Vi ricordate che Antonio Gramsci parlava di sovversivismo delle classi dirigenti? Beh neanche lui poteva immaginare una situazione di “doppio sovversivismo”, con due pezzi di borghesia tutti e due ben decisi a scassinare la democrazia.
Che spazio resta alla sinistra? E’ chiaro che spazio resta: quello che da vent’anni si rifiuta di occupare: la politica. Se la sinistra, invece di farsi invischiare nelle congiure, e invece di fare il tifo, si decidesse ad aprire dei fronti di lotta veri, sulle questioni strategiche, potrebbe essere avvantaggiata da questa frattura insanabile che sta spingendo la borghesia italiana verso la sovversione. Potrebbe ottenere dei risultati e rovesciare completamente i rapporti di forza.

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