Storie di immigrati cinesi che si stanno rapidamente uniformando all’evoluzione obbligata dei sistemi marxisti: il capitalismo più avanzato
A 20 anni Shengde Sun era un contadino povero in una comune rurale nella regione del Zhejiang, a sud di Shanghai. A 30, sbarcato in Italia, lavorava come cuoco in un ristorante cinese di Biella, oppresso dal freddo e dalla nebbia. Oggi, alla vigilia dei 50 anni, Sun è un ricco e rispettato imprenditore. Dai suoi uffici con grandi finestre sulla romana piazza Vittorio, cuore dell’Esquilino, il rione considerato la Chinatown della capitale, controlla un’impresa di import-export di abbigliamento, un’agenzia di servizi che impiega notai, avvocati e commercialisti italiani, quattro ristoranti. In più ha interessi nell’immobiliare ed è socio, in Cina, di una fabbrica con 4 mila operai che visita, accompagnato dal suo stilista, almeno una volta al mese. Ride: «Io sono operaio. Grande lavoratore. Non come voi italiani: sabato vacanza, domenica vado fuori…. Io lavoro sempre. Così sono cresciuto a poco a poco. Non come una bomba».
Immagine curiosa: proprio di esplosione dell’imprenditoria cinese in Italia cominciano a parlare alcuni osservatori. Come la Cgia di Mestre, associazione di artigiani e piccole imprese. In tre anni, tra il 2000 e il 2003, ha segnalato, il numero delle imprese cinesi è aumentato del 68,6 per cento. Concorda l’ufficio studi della Camera di commercio di Milano, indicando un’espansione verso sud: «È febbre gialla: a Napoli si passa da 60 imprese nel 2000 a 549 nel 2004, a Lecce da 9 a 111, a Reggio Calabria da 1 a 97». Oggi gli immigrati dalla Cina figurano al terzo posto nella classifica degli imprenditori extracomunitari in Italia, dopo svizzeri e marocchini. Mentre sono solo quinti nelle statistiche generali dell’immigrazione.
Su 97.757 cinesi registrati ufficialmente in Italia (dati Caritas), 24.961, uno su quattro, ha un’attività in proprio. E non solo ristoranti o laboratori d’abbigliamento o borsette in cui si lavora 16 ore al giorno, con i vetri oscurati, spesso impiegando clandestini e, a volte, anche bambini. «Da alcuni anni nuove professioni caratterizzano i cinesi in Italia» ha scritto, in un saggio sulla rivista Aspenia, Antonella Ceccagno, docente di lingua e letteratura cinese all’Università di Bologna. «Questo, insieme con lo sviluppo sorprendente delle attività più tradizionali, indica quanto la comunità italiana degli xin yimin (i migranti) sia ormai variegata, stratificata e sia entrata in una fase di maturità dinamica».
A Milano Cinzia Hu, 33 anni, laurea in economia alla Bocconi, ha aperto uno studio di commercialista che impiega due ragionieri italiani e tre cinesi e ha clientela mista. Racconta: «Sono arrivata dalla Cina a 11 anni. Ho imparato l’italiano prima dei miei genitori e ho fatto l’interprete per loro. Ho frequentato ragioneria, poi l’università, sempre lavorando nel ristorante dei miei. Un giorno ne ho aperto uno». Ma Cinzia Hu continuava a fare i conti per i parenti e l’interprete per gli amici nell’acquisto di case e negozi. Tutto gratis. Finché suo marito, Marco Ji, le ha suggerito di farsi pagare ed è nato lo studio. Spiega Luigi Sun, 50 anni, portavoce della comunità cinese di Milano, la più antica d’Italia: «I nostri migranti vogliono una sola cosa: mettersi in proprio».
A Milano come a Napoli. Ecco la storia di Zuogan Jiang, 33 anni, sposato con una connazionale, due figli, proprietario di un’azienda con 15 operai a Terzigno, nell’entroterra vesuviano: «In Cina facevo l’insegnante. Sono ven