Poco meno di mezzo secolo fa avvenne il delitto del Circeo. Fu immediatamente ingessato in clichets classisti e ideologici. I mostri “pariolini”, tanto per dirne una, non abitavano ai Parioli. Di tre persone una sola apparteneva alla borghesia realmente ricca. Quello che venne identificato come disprezzo di classe e di sesso fu allora rappresentato come emblema fascista, tanto da cancellare in un attimo tutta la storia del fascismo e del neofascismo e il ruolo che vi ebbero le donne, sin dalla Marcia per non parlare della Rsi, dove furono ammesse nell’Esercito.
L’immagine di questo presunto maschilismo fu così forte che persino la Mambro ebbe a dire che si era ribellata ad un ambiente “maschilista” che esisteva solo nell’immaginario collettivo, non nel reale. Ma fu evidentemente così forte quell’immaginario che una ragazzina dell’epoca che pur non avrebbe avuto difficoltà a osservare con calma il proprio ambiente, nello specifico anche un’anticchia femminista, ne fu condizionata senza ragione.
Filippo Ghira appartiene a una delle famiglie dei colpevoli, inchiodate alla vergogna e al pregiudizio. Il padre, campione olimpionico di pallanuoto, è diventato per tutti un “palazzinaro” e un uomo potentissimo, quando invece tirava regolarmente la carretta e non senza difficoltà per via di una dirittura morale d’altri tempi. Il figlio ha voluto rimettere le cose in ordine, esprimendo con una penna scorrevole e immaginifica gli ambienti familiari fin dai tempi della giovinezza dei genitori. Ne è venuta fuori non soltanto la piccola saga familiare ma una storia dell’Italia arguta e accattivante.
Sullo sfondo emerge la volgarità dei ricchi del boom, con tanto di corruttela e di depravazione, incapaci di educare i figli, sempre spinti a prevalere, ad apparire, sostanzialmente ignorati e lasciati a se stessi, abituati a tutto ottenere, senza più alcuno scopo al di fuori della venalità.
Come rimarca l’Autore, in una polemica con Calvino, sarà lo stesso Pasolini a “universalizzare” questi difetti e a sostenere che non si trattasse di un’esclusiva caratteristica di classe, essendo estesa ovunque, fin nelle borgate che, tra l’altro, di lì a poco sarebbero state la sua tomba.
È l’Italia democristiana, l’Italia comunista, l’Italia del consociativismo, l’Italia delle ambigue complicità e delle affermazioni sdrucciole, l’Italia della vigliaccheria, quella che viene messa perfettamente in scena da Filippo, con amarezza e senza alcuna concessione. L’Italia in cui cinquantuno anni fa l’Autore si mise a militare in politica, nel mio liceo e nella mia squadra.
C’è spazio, con ironia, per i ricordi di quei momenti in cui pochi giovani, contro tutto e tutti, provammo a tener alta la testa. Il ricordo non obnubila lo sguardo e non v’è indulgenza per le scelte politiche che ne sono scaturite, né per le motivazioni spesso vaghe e deboli di chi le ha intraprese.
Il fil rouge del libro, pur caratterizzato da episodi ironici e da richiami musicali e calcistici, è l’amara esperienza a tutto tondo della piccolezza umana, delle ristrettezze mentali e morali, dell’inessenza stupida, vile e violenta di un popolo in tutte le sue espressioni.
I figli venuti male sarebbe potuto diventare un gran film all’epoca del realismo di Cinecittà.
Consiglio di procurarselo e leggerlo perché certe atmosfere non si colgono così facilmente.
Ed è sciocco ignorarle o dimenticarle.
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