sabato 20 Luglio 2024

Il mistero giapponese

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L’inflazione che non cresce

È solo questione di mentalità oppure, alla base dell’ennesimo miracolo economico del Giappone, c’è un modus operandi sui generis e impossibile da replicare in altre nazioni? Mentre in tutto il resto del mondo l’inflazione galoppa, alimentata dalla guerra in Ucraina e del conseguente aumento del costo delle materie prime, a Tokyo e dintorni la situazione è ben differente. I dati sono strabilianti, soprattutto se guardati attraverso lenti europee o statunitensi, visto che a queste latitudini l’inflazione – considerata elevata – si attesta intorno al 2-2,5%; giusto per fare un confronto, negli Stati Uniti e nel Regno Unito siamo a livelli ben più allarmanti che oscillano dall’8% al 9%.
Come fa giustamente notare il Financial Times, anche la risposta delle autorità rispecchia scenari tra loro completamente diversi. Mentre la Federal Reserve americana e la Bank of England, seguiti dalla Banca centrale europea, hanno aumentato e stanno continuando ad aumentare i tassi di interesse nel tentativo di spegnere l’incendio, la Bank of Japan, banca centrale giapponese, sta acquisendo tutte le obbligazioni di cui ha bisogno per mantenere i rendimenti a 10 anni ancorati allo 0%.
Il Giappone sarà pure fortemente esposto agli stessi choc con i quali devono fare i conti altri Paesi – in primis l’aumento del costo delle materie prime importate – eppure sul territorio nipponico non si registra alcun passaggio dall’aumento dei prezzi all’aumento dei salari.

Un contesto particolare
A ben vedere, come ha spiegato Masamichi Adachi, capo economista di USB, a Tokyo è ben evidente una mentalità deflazionistica. “In Giappone, l’aumento dei prezzi delle importazioni può portare alla deflazione. Ecco perché è difficile immaginare che l’inflazione possa essere sostenuta in Giappone”, ha affermato Adachi, citato dal FT.
Negli Stati Uniti e in Europa, solitamente le aziende rispondono all’aumento dei prezzi delle citate materie prime trasferendo i costi in più sui consumatori. Non succede così in Giappone, dove le imprese, nel caso in cui decidessero di aumentare i prezzi, sarebbero terrorizzate per possibili contraccolpi pubblici. Allo stesso tempo, dopo decenni di retribuzione stagnante, sul fronte dei salari dei cittadini, nessuno chiede aumenti che permetterebbero una maggiore libertà di acquisto.
Se le aziende devono pagare di più per le importazioni, ma non possono aumentare i loro prezzi al dettaglio, subiranno una compressione dei profitti. Spesso reagiscono allora cercando di ridurre i costi salariali, creando in definitiva una pressione deflazionistica e non inflazionistica. In ogni caso, calcolatrice alla mano, ed escludendo l’impatto di cibo ed energia, in Giappone i prezzi sono aumentati solo dello 0,8% rispetto all’anno precedente.

L’inflazione in Giappone
Per quale motivo, allora, l’inflazione in Giappone è inferiore rispetto a quella registrata in tutte le altre economie avanzate? Senza usare troppi tecnicismi, e riducendo la spiegazione all’osso, la banca centrale giapponese è fiduciosa che l’inflazione del Paese si ridurrà, e sta quindi pensando bene di sostenere l’economia e non frenarla. L’obiettivo è fare di tutto per mantenere i prezzi freddi.
Lo ha fatto capire in maniera piuttosto esplicita il governatore della stessa banca, Haruhiko Kuroda, che ha acceso i riflettori sul concetto di zero-inflation norm. Kuroda ha affermato che in Giappone tutti agiscono di concerto per mantenere i prezzi invariati. Perché? Anche il loro più piccolo aumento andrebbe a produrre un calo della domanda più che proporzionale, mentre una diminuzione non porterebbe importanti miglioramenti.
Secondo quanto riferito dalla Banca centrale del paese, l’inflazione di base in Giappone si è attestata a maggio al 2,1%, attestandosi al di sopra dell’obiettivo stabilito del 2% dall’istituto a causa dello scenario globale non prevedibile. L’inflazione al netto dei prodotti deperibili si è attestata al 2,7%, valore ai massimi degli ultimi sette anni che sta dunque spingendo i rivenditori a trasferire gli aumenti sui prezzi finali al consumatore, facendo crescere il rischio di influenzare la domanda.

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