La teocrazia imperiale di Federico II
Nel testo del diploma in cui è motivata la concessione della Medaglia d’Oro della Resistenza al Comune di Parma si possono leggere le seguenti parole: “Fiere delle secolari tradizioni della vittoria sulle orde di Federico imperatore, le novelle schiere partigiane rinnovavano l’epopea vincendo per la seconda volta i barbari nepoti oppressori delle libere contrade d’Italia…” Testuale.
Ha un bel dire il buon Franco Cardini, in un suo scritto su Federico II, che bisogna tenersi lontano dalle sirene devianti dell’ “attualizzazione” e dell’ “inattualità”. Per circa due secoli una certa “storia patria” confezionata ad usum Delphini ha cercato di propinare a generazioni di Italiani una vera e propria falsificazione: quella secondo cui la ribellione antimperiale dei Comuni avrebbe rappresentato l’alba della coscienza nazionale e avrebbe costituito il primo tentativo dell’Italia per spezzare il giogo impostoci dal “secolare nemico” tedesco. Non c’è da stupirsi più di quel tanto, dunque, se colui che Dante chiamò “ultimo imperadore de li Romani” (Conv. IV, 3, 6) è diventato, per gli aedi dell’epos resistenziale, il capo di un’orda barbarica; così come non c’è da stupirsi più di quel tanto per la popolarità conosciuta negli ultimi anni dalla figura (più leggendaria che storica) di Alberto da Giussano.
Ma, al di là delle “attualizzazioni” propagandistiche e demagogiche, vogliamo chiederci quale sia la realtà di questo grande Inattuale, il cui ottavo centenario è venuto a coincidere, qualche anno fa, con il centocinquantenario di un altro Inattuale, un altro Federico: Friedrich Nietzsche, che in una sua celebre pagina definì Federico II “grande spirito libero, genio tra gl’imperatori”.
Cerchiamo allora di gettare un rapido sguardo sullo scenario storico e di