Erano ragazze, ragazzine anche minorenni, quelle che arrivarono dal Centro Italia durante e dopo la Seconda guerra mondiale alle porte di Palermo, con i segni della guerra, di una violenza antica, che aveva fatto del loro corpo un ‘bottino di guerra’.
Oggi si apprende – grazie al lavoro di Ester Rizzo, ricercatrice di Storia e storie delle donne, autrice de “Il labirinto delle perdute” (Navarra, 2021) – che si rifugiarono in un convento di Termini Imerese, e molte di loro partirono alla volta dell’America per rifarsi una vita con un marito sposato per procura: erano le vittime delle ‘marocchinate’, ovvero scorribande, rapine e stupri di gruppo dimenticati (o oltraggiati, come nel caso della targa che li ricorda divelta a Viterbo) dalle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario dello sbarco in Sicilia e dell’inizio della campagna d’Italia, quando la risalita della penisola da parte delle truppe Alleate, impegnate a ridare al Paese la libertà dal giogo nazifascista, non riuscì o non volle impedire l’ondata di volenza dei ‘goumiers’, i soldati marocchini reclutati dal generale francese Alphonse Juin e inquadrati nel IV Tabor, che rappresentò la Francia nell’operazione Husky in Sicilia.
Il IV Tabor era composto da tre unità goum (banda, squadrone): in tutto 832 soldati nell’ambito del Corpo di spedizione francese costituito da 110.000 unità tra marocchini, algerini, tunisini e senegalesi. I marocchini erano stati scovati tra le tribù delle montagne dell’Atlante nel Paese maghrebino. Si trattava di berberi, legati tra loro da una cultura tribale e da una pratica del saccheggio già messa al servizio dei francesi negli anni Trenta contro le ribellioni anticoloniali.
A loro Juin prometteva, con l’avallo di Charles De Gaulle, l’indipendenza nazionale a medio-lungo termine e nell’immediato, con il non-intervento per mettere fine alle violenze, il via libera a razzie e ferocia (un proclama esplicito in questa direzione sarebbe stato fatto dal generale nei giorni della battaglia di Cassino, ma non ve ne sono prove storiografiche).
“Dalle numerose documentazioni raccolte – ha spiegato in diverse occasioni Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione nazionale delle vittime delle marocchinate (Anvm) – possiamo affermare che ci furono un minimo di 20.000 casi accertati di violenze, ma è un numero che comunque non rispecchia la verità; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, sia per vergogna o pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Corpo di Spedizione Francese, che iniziò le proprie attività in Sicilia e le terminò alle porte di Firenze, possiamo affermare con certezza che vi fu un minimo di 60.000 donne stuprate, e ben 180.000 violenze carnali”.
Se fu il Lazio a essere il più devastato tra i territori della penisola dalla violenza dei goumiers, questa ebbe inizio in Sicilia. E se le donne del Lazio hanno trovato ne “La Ciociara” di Alberto Moravia l’incarnazione letteraria dell’offesa subita, le donne siciliane “non hanno mai raccontato né denunciato portandosi nella tomba il peso del macigno che ha gravato per tutta la vita sul loro cuore”, scrive in “Le Ciociare di Capizzi” (Iacobelli Editore 2020) Marinella Fiume, storica, curatrice di una straordinaria indagine orale su quanto accadde tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1943 a Capizzi, lungo la linea dell’Etna, qualche settimana dopo lo sbarco del 10 luglio di quello stesso anno.
Lì, tra i Nebrodi e l’Etna, la violenza della bande di goumiers. “Venivano – racconta un contadino allora di 8 anni di età ai ricercatori impegnati nell’indagine su Capizzi – a gruppi sui muli ed erano neri, s’amnmuccavunu zoccu capitava, macari i fimmini, certu, masculi è runu! (arraffavano e mangiavano ciò che capitava, anche le femmine, certo, maschi erano!). Ma erano selvaggi e i fimmini i marturiavunu (le donne le martirizzavano). Una volta maritu e mugghieri ammazzaru un marrucchinu (marito e moglie ammazzarono un marocchino) insieme”.
I capitini non rimasero inerti, e nella guerra che coinvolgeva l’Europa ne nacque un’altra, di dimensioni minori ma altrettanto cruciale per la sopravvivenza di chi la visse: “Gli inglesi – racconta un capitano nel volume curato da Marinella Fiume per Iacobelli editore- portarono in Sicilia i marocchini perché dicevano che in Sicilia semu sarbaggi (siamo selvaggi) perciò ci volevano selvaggi come noi.
I marocchini erano di bassa statura e color marrone in faccia, vestiti con una coperta lunga (barracano), avevano capelli lunghi e intrecciati e portavano turbanti, senza calze e con gli zoccoli ai piedi. Ma siccome gli inglesi non ci difendevano, i capizzuoti (capitini) ne ammazzarono tanti di marocchini, a colpi di bastone e con le roncole. Tanto danno facemmo a loro, più di quanto loro non ne fecero a noi con le loro marocchinate.
Venivano nelle masserie a truppa e facevano i comodi loro. Le donne di tre famiglie le violentarono, madri, zie, cognate, sorelle e figlie, tenendo gli uomini sotto la scupetta (il fucile) e questi perciò non potevano reagire. Violentarono una ragazza di 16 anni che era andata sola a prendere l’acqua alla sorgente. Ma i capizzuoti non se la tenevano (non subivano) e fecero un’imboscata nel bosco. Una volta, al pascolo nel bosco trovai un elmetto, incuriosito mi avvicinai e dentro ci trovai la testa di un marocchino a cui l’avevano tagliata con l’ascia. Quella fu la guerra della citta’ di Capizzi contro i liberatori, i vinnigna’mmu (facemmo vendemmia di loro come si fa con l’uva) con una guerriglia”. Tra i goumiers i morti furono almeno 15.
Non fu solo Capizzi, in Sicilia, a subire questa violenza. I primi episodi si registrarono sulla statale Licata-Gela. “Agli stupri – scrive Fiume – parteciparono non solo i soldati di origine africana delle truppe coloniali, ma anche francesi europei perché le violenze del Cef continuarono ad opera di francesi bianchi paracadutisti, anche dopo il rimpatrio avvenuto il 23 ottobre 1943 del IV Tabor, nella frazione del Comune di Trapani denominata Xitta, dove dovettero intervenire le autorità militari americane per sedare la rivolta seguita alla reazione della popolazione civile”.
L’efferatezza del IV Tabor era nota agli Alleati, e i più consapevoli di dovervi porre un limite furono, forse, gli americani. I goumiers furono fatti imbarcare a Messina, ma senza che mettessero piede in città. Ma furono impiegati in Campania, nel Lazio e nella Toscana, dove replicarono i saccheggi e gli strupri commessi in Sicilia.
“Marinella Fiume e le donne di Capizzi – spiega all’AGI Ester Rizzo – hanno fatto riemergere quelle violenze obliate, queste verità non suffragate da alcun documento: tutti sapevano, ma in quel paese nessuno parlava. Quella ricostruzione è il ricordo, che fu alle donne negato, di una violenza subita. Nel Frusinate a molte di queste donne veniva vietato di andare alle fontane per venivano considerate ‘marce'”.
A rompere il silenzio della politica sulle “marocchinate” fu Maddalena Rossi, parlamentare comunista: il 7 aprile 1952 denunciò in aula la mancata liquidazione di 60mila pratiche di pensione e di indennizzo alle donne vittime degli stupri. Oppresse da un sentimento di vergogna, molte ragazze fuggirono dall’Italia, trovando un canale speciale per lasciare il Paese:
“A Termini Imerese – rivela Ester Rizzo – c’era un convento, il convento di San Pietro, che, anche in tempo di pace, ospitava orfanelle, ragazzine in difficoltà: dava loro un’istruzione e l’arte del ricamo, insegnava a cucinare. Questa struttura era finanziata per opere di bene da emigrati da Termini Imerese negli Stati Uniti. Qui, a un certo punto, giunsero le ragazze che erano state violentate a Capua e ad Aversa. Nella zona di Termini Imerese, a Buonfornello, era presente un aeroporto militare, in cui operava un corpo di infermiere volontarie; a Cefalù, vicino a Termini, c’era il piu’ grande deposito americano di penicillina, usata per curare per le malattie veneree; e a Termini c’era un reparto di ginecologia molto avanzato”.
“Le ragazze – continua la storica – giungevano in Sicilia via mare o con aerei militari e dopo essere state curate, venivano portate nel convento, dove venivano loro impartite lezioni di ricamo, cucina, un’istruzione: alcune di loro furono fatte sposare per procura a emigrati di Termini Imerese negli Stati Uniti. È lì che sono andate a ricostruirsi una vita, ed è improbabile che chi le sposava non sapesse di questa storia. Alcune restarono a Termini Imerese: di loro non sappiamo nulla – conclude Ester Rizzo – ed è meglio lasciarle in pace”.