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Un profeta

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Jean Raspail quarantacinque anni fa!

Il romanzo di Jean Raspail “Il campo dei santi” è uno dei tanti capolavori dimenticati della narrativa europea: scritto nel 1973 l’opera ha conosciuto un lungo periodo di oblio prima di essere riproposta dalla casa editrice identitaria A/R in anni recenti.
Definire “Il campo dei santi” un romanzo di fantapolitica è riduttivo; si tratta più esattamente di un’opera profetica che intende rispondere a una domanda ben precisa: come reagirebbe l’Europa se una massa immane di disperati giungesse in una sola volta da un paese del terzo mondo?
Jean Raspail preferisce una cruda verità a una pietosa menzogna e ci risponde quindi direttamente, senza sconti e in modo politicamente scorretto: sarebbe la fine della nostra civiltà occidentale. Per lo scrittore francese pensare che un simile scontro di civiltà si possa in virtù di qualche miracolo trasformare in un incontro fecondo è del tutto improbabile sul piano dell’esame di realtà e superficialmente ingenuo sul piano psicologico.
Il romanzo del resto è attraversato lungo tutto il suo dipanarsi da suggestioni apocalittiche: lo stesso titolo “Il campo dei santi”, cioè l’Europa culla della cristianità, è stato ispirato a Raspail da un versetto dell’Apocalosse di san Giovanni:
“Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra, Gog e Magog, per adunarli per la guerra: il loro numero sarà come la sabbia del mare. Marciarono su tutta la superficie della terra e cinsero d’assedio il Campo dei Santi e la città diletta”. Apocalisse, 20, 7-9
Tramite un linguaggio eterogeneo costituito da dialoghi diretti, cronache giornalistiche, dispacci diplomatici e analisi sociali lo scrittore con uno stile incalzante e coinvolgente ricostruisce a posteriori gli eventi che hanno portato, proprio verso la fine del millennio, al tracollo europeo. L’origine della catastrofe risale a un episodio scatenante: guidato da un personaggio carismatico soprannominato “il coprofago” un milione di indiani miserabili e derelitti da Calcutta si imbarca su un centinaio di vecchie imbarcazioni in disarmo nel tentativo disperato di raggiungere le coste della Francia sollecitati dall’idea che laggiù, in Europa, ci sia una sorta di paradiso terrestre che non aspetta altro che di essere conquistato. A partire da questo episodio originario il romanzo è incentrato sul racconto della traversata della flotta da incubo che prima circumnaviga l’India, supera la penisola arabica, doppia il Capo di Buona Speranza in Sudafrica, costeggia il litorale occidentale dell’Africa e infine, dopo avere attraversato lo stretto di Gibilterra, entra nel Mediterraneo prima di approdare il venerdì di Pasqua davanti alle spiagge della Costa Azzurra.
Contemporaneamente lungo il corso del fiume Amur che delimita il confine fra Cina ed ex Unione Sovietica cinque milioni di donne e bambini cinesi in condizioni materiali e morali disastrose entrano nel “paradiso sovietico” senza che l’Armata Rossa possa o voglia intervenire per respingerli mentre milioni di neri si ammassano lungo i confini sudafricani pronti anch’essi a varcare il confine.
La tesi di Raspail nel rappresentare questo dramma – che è tale non meno per l’Europa accogliente che per le masse terzomondiste accolte – è che la civiltà occidentale costituita da 900 milioni di persone è destinata a essere travolta dai sei miliardi di popoli non bianchi. Tuttavia solo apparentemente questa sproporzione sarà la causa principale della fine del mondo occidentale. La ragione principale per Raspail in realtà è da ricondurre alla pluridecennale cultura progressista che ha minato la coesione morale degli europei inoculando come un morbo velenoso il rimorso e il senso di colpa che ne hanno fiaccato la tempra morale. Questa narcosi delle coscienze e anestesia dei più naturali e sani istinti di conservazione si manifesta nel romanzo anche nell’incapacità del governo francese, ma per esteso di ogni governo europeo, di prendere l’unica decisione atta a impedire la catastrofe: vietare lo sbarco del milione dei “disperati del Gange” o del “popolo dell’ultima chance” come presto sono ribattezzati dai media occidentali i migranti a bordo della flotta, se necessario ricorrendo alle armi. Solo il Sudafrica reagirà rifiutandosi di accogliere la massa di disperati prima di essere a propria volta travolto dalle masse di derelitti che premono sui suoi confini terrestri.
La responsabilità della catastrofe che determinerà la fine d’Europa quando il “popolo del Gange” sbarcherà nelle regioni meridionali francesi e nella sua avanzata travolgente si abbandonerà a saccheggi, violenze, e illeciti di ogni tipo, per Raspail è senza dubbio dell’elite intellettuale e del clero progressista: queste due categorie tramite la propaganda mass mediatica hanno creato infatti un clima morale da resa incondizionata facendo leva sull’emotività popolare: tanto il governo, che la chiesa cattolica guidata da papa Benedetto XVI, che il popolo francese sono moralmente disarmati, de-virilizzati, castrati e impotenti di fronte alla necessità di prendere decisioni difficili: impedire l’invasione con qualsiasi mezzo, anche quello più cruento. Questa classe di intellettuali, che lo scrittore qualifica significativamente come “servi della Bestia”, finirà anch’essa per essere travolta dall’onda immigratoria che essa stessa ha suscitato, ma quando prenderà coscienza dell’errore compiuto sarà ormai troppo tardi: l’esercito francese demoralizzato e infiacchito da decenni di attacchi e propaganda pacifista e gandhiana tracolla, si sbanda a causa dell’elevatissimo numero di diserzioni e infine, tranne un manipolo di poche unità, cede e si da alla fuga abbandonando le regioni meridionali della Francia che avrebbe dovuto difendere.
Dunque per lo sguardo analitico e spietato di Raspail alla radice del disastro ci sono certamente i “maestri del dubbio”, cioè gli intellettuali nichilisti, gli ideologi velenosi e il clero pauperista, tutti più o meno inconsapevolmente agiti da impulsi di odio verso la civiltà occidentale cui essi stessi appartengono. La ragione di questo livore rancoroso risale a latenti istinti suicidarsi perché, ci avverte Jean Raspail, odiare le proprie radici e la propria storia significa odiare se stessi. Raspail delinea un ritratto esemplificativo di questi “maestri del dubbio” nel personaggio di Boris Vilsberg, un influencer e opinionista radiofonico rappresentativo dell’intera categoria di intellettuali mondialisti di cui fa parte:
“Giorno per giorno, mese per mese, grazie ai suoi dubbi l’ordine diventava dunque una forma di fascismo, l’insegnamento una costrizione, il lavoro un‘alienazione, la rivoluzione uno sport gratuito, lo svago un privilegio di classe, la marijuana semplice tabacco, la famiglia un luogo soffocante, il consumo un’oppressione, il successo una malattia vergognosa, il sesso un passatempo senza conseguenze, i giovani un tribunale permanente, la maturità una nuova forma di senilità, la disciplina un attentato alla personalità umana, la religione cristiana… e l’Occidente… e la pelle bianca. Boris Vilsberg cercava, Boris Vilsberg dubitava. Tutto ciò andava avanti da anni. Attorno a lui le macerie di un’antica nazione, a mucchi.”

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