domenica 1 Settembre 2024

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Il risibile immaginario sovranista sull’economia

 

La reazione sovranista vaneggia sul capitale.
Uno degli argomenti più utilizzati nella difesa “identitaria” è lo scandalo per le acquisizioni straniere. Fanno confusione anche su questo. Non esiste una patria del capitale che notoriamente è apatride. Esistono delle fasi protezionistiche, che sono legate a periodi particolari, e questo è tutto. Che il capitalista che guadagna si chiami Benetton, Agnelli o De Benedetti, piuttosto che Bolloré non significa niente e non è assolutamente detto che sia meglio.

Delocalizzazioni
Quello che conta è altro, ad esempio se il lavoro viene delocalizzato o meno. Quarantatre anni fa, non ieri, con Terza Posizione, ci battemmo per evitare una delocalizzazione in Libia della leccese Idrocalce; i suoi proprietari che stavano trasferendo la fabbrica licenziando gli operai erano italianissimi.
Evitare le delocalizzazioni della forza-lavoro? Si può fare. I tedeschi ad esempio rendono il Land proprietario azionario delle imprese principali e questo fa sì che nessuno degli azionisti voti per trasferire la fabbrica e perdere l’occupazione, perché il guadagno che ne trarrebbe comporterebbe perdite e disagi maggiori.

Produttori
Il tricolore sulla cassa è uno slogan ma è un’invenzione strampalata.
Un discorso già differente riguarda i sostegni ai settori produttivi. Di questo tutti si riempiono la bocca ma poco fanno. D’altra parte il capitalismo italiano è storicamente micragnoso e timoroso, quasi non conosce il rischio d’impresa e vuole sempre partire assicurato, con il paracadute bancario. Oggi questo è quasi impossibile e la via d’uscita, che pure esiste, non prescinde dal fare sistema e sinergia; due culture pressoché ignote da noi.
Su quello si deve puntare e non sugli slogan che riducono tutto agli interessi presunti della svalutazione che favorirebbe l’esportazione. Un’esportazione non così rilevante come raccontano, peraltro in gran parte già integrata in sinergie con altri, specie i tedeschi. I costi energetici e le importazioni, che diventerebbero entrambi molto più cari e che pesano sui bilanci di tutti, vengono allegramente dimenticati. L’importante è lo slogan, non la proposta sensata.
E lo slogan vuole sostenere un Brambilla contro un Dupont o contro un Maier in una specie di Europa League dei bottegai. Come se ce ne potesse fregà de meno!

Locale e corporativo
Il liberalismo patriottardo ha il difetto concettuale di attribuire una patria all’interesse e quello sostanziale di essere sempre e comunque liberale. A questo sono ridotte le destre occidentali.
Di tutt’altro tenore è una risposta non comunista al capitale. Si fonda su alcuni capisaldi che passano per la dignità del lavoro, per la partecipazione all’impresa, ancor più che ai suoi utili, e per l’organizzazione corporativa nel sindacalismo nazionale/rivoluzionario.
Quindi non si preoccupa di far guadagnare tizio rispetto a caio, ma di fare comunità di destino e di potenza. Ciò comporterebbe oggi un impegno a favorire il locale, il cooperativo, il sinergico. In questo, e solo in questo, ha senso un “compra italiano” che, però, è relegato al piano della localizzazione e della creazione di potere, non a quello del capitale medio-alto della classe apolide per la quale il passaporto è intercambiabile.

Asset strategici
Abbiamo poi il capitale strategico o la “proprietà privata che conferisce potere politico”.
Non si tratta tanto di nazionalizzare gli asset strategici, e men che meno le “compagnie di bandiera” visto le gestioni fallimentari che ne facciamo. Si tratta di mantenere il controllo statale e nazionale su questi asset strategici che spesso (armamenti, spaziale) sono in cooperazione con altri: francesi, tedeschi e anche russi, inglesi ecc. E di farne un fulcro della nostra assertività nella potenza europea.
Su questo arranchiamo perché nessuno da noi difende l’Eni o la Leonardo che sono ostaggio di magistrati ideologizzati che le pugnalano regolarmente alle spalle favorendo le strategie straniere, soprattutto angloamericane.

A vanvera
Le risposte alla crisi “da globalizzazione” (ovvero ai processi inesorabili del capitalismo) ci sono. Ma s’ignorano o si dimenticano per rifugiarsi in un patriottismo bottegaio non si sa se più imbarazzante per la sua totale inconsistenza o se per il suo valore ideale.
Anche qui l’antropologia e la sociologia del populismo sono tradite e chiuse in un vicolo cieco da chi pretende di rappresentarle frettolosamente.
Troppo nulla urlato. Se ci si sofferma solo un istante a osservare in tutta Europa le forze politiche sovran-populiste, dalle più moderate alle più radicali e ribelli, non si trova granché. L’opposizione al politicamente corretto, una contestazione abbastanza raffazzonata dell’immigrazione, una timida opposizione alla dittatura del genere. Poco e malino; ma il resto è a dir poco raccapricciante.
Tuttavia resta la buona volontà nei legami antropologici.
Per affrontare la realtà che viviamo e i suoi cambiamenti però serve ben altro.
E in fretta!

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