apparso sul Corriere del Veneto
Qualche tempo fa, quando il mondo era per me un po’ più ridente perché Giovanni Ventura era ancora in perfetta forma, uscì un romanzo scialbo e insolente, nevrotico e morboso, che incastonava in una trama noir una riscrittura puerilmente (preferisco soffermarmi su questo aspetto diciamo ‘etologico’, rinunciando all’indignazione) arbitraria della vicenda di Piazza Fontana. L’autore era un ragazzo della mia generazione (1979, per intenderci) che, con furiosa superficialità (è una contraddizione, lo so, ma costui non era tipo da farsene un problema), e dolosa ignoranza (ma ciò non è gli è stato di ostacolo alla carriera), si slanciava nel ritratto delle figure di Freda e Ventura. Io che avevo la fortuna di conoscerli bene non li riconobbi affatto in quelle caricature livide, eccitate, in quegli stereotipi proposti con zelo da comiziante, confezionati con foga da piazzista. Mi imbronciai un attimo pensando alla piega che stava prendendo la cosiddetta grande editoria nazionale e mi venne un’improvvisa nostalgia di un mondo, impossibile, dove gli scrittori impugnassero la penna con cavalleria e la pietas classica verso l’avversario trionfasse sulla retorica ruffiana e si ricomponesse così la corrispondenza grandiosa di luce e ombra da cui era sorta la classicità.
Subito mi riscossi e di getto abbozzai una descrizione dei due ribelli che si limitava a dare conto della qualità dei loro sguardi (nel microscopico il macroscopico), in cui spesso e volentieri mi ero immersa. Non dite che a ispirarmi fu il pregiudizio favorevole che avevo verso i miei amici, poiché devo confessarvi che la simpatia non era proprio un pregiudizio ma una conseguenza che mi aveva domata e infiammata di soprassalto, data la mia storia personale, con un nonno partigianissimo e comunistissimo che mi impose l’odio di tutto ciò che sapeva di fascista come architrave del possibile, come sintesi necessaria del pensabile (anche voi avete di questi nonni? Consolatevi: il miracolo e la resipiscenza e la limpida gioia del paradosso è sempre possibile…). Dunque, dicevo, il mio controcanto di allora suonava così:
“Uno teso all’assenza, ma ferino e terribile, e quasi puntiforme nei momenti della furia, e fatto a somiglianza delle vetrate gotiche che, se attraversate dal sole, rivelano tutta la potenza e violenza del proprio colore – così quello sguardo, di incomune, suprema lucentezza se percorso dalle vampe interiori e dagli entusiasmi. (Freda)
L’altro elegiaco, consapevole, tragicamente consapevole, che i casi dell’esistenza, in fondo, conoscono una sintesi e una soluzione e una sapienza certa solo nella gravità, che inghiotte glorie e trionfi; gravità che, così, suole inghiottire anche in lui la disponibilità alle dolcezze della curiosità, per sprofondarlo – e rubarne lo sguardo – in precipizi interiori di pura, nobilissima, impersonale commozione. (Ventura)
Occhi da nichilisti entrambi, pure se in senso complementare. I due soli modi decenti di guardare questo mondo. Il resto è romanzetto per l’oblio.”
Non fate caso alla conclusione. Ero molto drastica, allora. Mi ero dimenticata per un attimo che il mondo, il nostro “magnifico mondo e progressivo”, è del giudice Casson, del giudice Salvini, del giudice Bertolè Viale, del giudice D’Ambrosio, di Gianfranco Bettin da Venezia, di Giorgio Bocca, dell’editorialista di Repubblica Adriano Sofri, degli eredi dell’editore di estrema sinistra Feltrinelli (morto su un traliccio mentre vi stava collocando un ordigno, ma forse – anzi: certamente! – vittima dei servizi segreti), di Gianfranco Fini e di Elisabetta Tulliani, di Patrizia (sic) D’Addario. Non di Omero, non di Ettore. E nemmeno del suo magnanimo avversario-alter ego Achille.