La desolazione imperante e le prospettive che ancora in pochi colgono
Si è aperto l’anno su un’Italia sempre più provinciale, allo sfascio e senza idee per il futuro.
E dire che sono molte le incertezze e, quindi, le potenzialità.
Andiamo con ordine.
Le nostre crisi
Le società occidentali, in crollo demografico, catturate dal sistema spazio-temporale del satellitare, aggredite dalla crescita asiatica e terzomondista, versano in gravi difficoltà.
In esse è da oltre un quarto di secolo che la classe politica non guida più nulla, ma viene utilizzata dalla tecnostruttura e dalla finanza per fungere da cantastorie e da anestetizzante.
La fandonia progressista, buonista e ottimistica non fa però più presa sulla gente che esprime visceralmente dei populismi di varia natura, i quali vanno dal giustizialismo al sovranismo, articolandosi fino all’ecologismo apocalittico. Per questa ragione la classe politica main stream è sconfessata.
Il deep state a guardia dello statu quo
A sua difesa interviene un po’ ovunque il deep state – che detiene il vero potere politico/giuridico/amministrativo – il quale ha nella classe politica i compagni di merenda e nelle loro storie fantasiose una fonte di reddito nell’associazionismo miliardario.
In quanto alle opposizioni populiste, non riescono a governare neanche quando vincono le elezioni, perché non sanno contrapporsi al deep state, né rinnovarlo per la pura e semplice ragione che non hanno né strategia, né metodo, né una visione del mondo propria e realmente diversa da quella dominante.
Questo è il quadro dei fragili equilibri occidentali che sembrano sempre sul punto di saltare ma che non saltano mai per mancanza di alternative.
Le politiche del capitalismo
La politica la fanno le centrali capitalistiche che non sono tutte allineate tra di loro. Laddove esistono dei sistemi nazionali e dei progetti politici queste centrali s’identificano in parte con la loro localizzazione. Tutti motivi, questi, che spiegano perché l’Italia è fuori dai giochi: essa è priva di sistema e di progetti e se ne fa persino vanto. Per vergognosi decenni ne ha fatto addirittura una forza perché, senza grilli nella testa, è stata a lungo così disponibile nei confronti degli angloamericani che ne ha regolarmente ottenuto laute mance. Solo che oggi il disimpegno americano ha messo fine a queste illusioni che pure vengono coltivate ancora da governo e opposizioni, comprese quelle radicali dell’Italexit e del No Euro.
Su piani diversi troviamo le centrali cosmopolite intrise da fanatismo messianico che spingono per la nuova ingegneria sociale della open society.
La dialettica tra queste centrali deciderà lo sviluppo della società.
La nuova fase strategica e le due linee europee
La nuova fase strategica, dettata dal disimpegno parziale americano e dal conclamato assertivismo cinese, ha rimescolato le carte ovunque. Questo significa che resteranno in gioco soltanto players imperiali e/o a dimensione continentale o subcontinentale. Ciò ha anche prodotto la recente velleità europea di assumere indipendenza strategica e satellitare e darsi una linea geopolitica e geoeconomica. Una velleità che talvolta s’apparenta con la volontà.
Ne sono stati generati due poli d’attrazione, l’uno di fedeltà euroatlantica che mette in riga come ascari buona parte di sovranisti e verdi, l’altro d’indipendenza europea, che si confonde con gli interessi del capitale europeo.
La svolta di Boris indebolisce l’atlantismo
La Brexit paradossalmente favorisce questa tendenza all’indipendenza europea e ne riduce i margini di subordinazione. Nella scelta operata, l’Inghilterra ha seguito la propria tradizione classista ed elitaria e ha premesso gli interessi finanziari e speculativi a quelli sociali e nazionali.
L’alternativa sarebbe stata di firmare le clausole di trasparenza che avrebbero fatto collassare il sistema della Sterlina e quello dei colossali finanziamenti alla gran parte delle formazioni terroristiche mondiali, principalmente islamistiche, che si snoda dalla City con l’utilizzo delle Charities.
Nessuno in Gran Bretagna è tanto sprovveduto da non sapere che il ripiegamento sulla stazza nazionale diminuisce la sovranità e non la rinvigorisce affatto perché lascia agire le forze del mercato globalizzato senza contrappesi.
La City ha però scelto di difendere un potere di casta e di esprimere uno spicchio di potere terzomondista rinunciando perfino al ruolo strategico atlantista che svolgeva nella Ue.
Come uova di serpente ha scientificamente disseminato in via preventiva in Europa le distorsioni Exit e No Euro (queste facezie sono nate lì…), sperando così d’indebolire una potenza nascente alla quale si sente estranea e ostile già da sei secoli.
Verso nuovi anni venti (sovranità e corporativismo europei)
In questo quadro si aprono spazi notevoli per chi sappia coniugare uno spirito rivoluzionario che aggredisca la cultura e la struttura capitalistica e, al tempo stesso, accompagni la volontà di potenza europea contrapponendosi all’euroatlantismo in tutte le sue forme, comprese le fole alla Exit.
Ci sono le condizioni per esprimere un sovranismo europeo in grado di coniugare i confusi sentimenti di rivalsa della gente decodificandoli, sublimandoli e offrendo loro delle soluzioni concrete e futuribili, tra i quali un corporativismo europeo. Mediante una strategia e un metodo per contrastare il deep state e una progettualità che consenta alle forze produttive d’incidere sulle scelte politiche.
Ma tocca uscire dal provincialismo concettuale, specie nella retroguardia radicale, sempre che ambisca ancora a rivestire un ruolo che non sia soltanto tribale, esibizionistico e da social.