sabato 21 Dicembre 2024

Altro caos nel nucleare

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Il Pakistan che rischia di esplodere nell’attuale fase di caos organizzato

Nuvole nere si addensano sul Pakistan. Islamabad è in fermento per il caso che ha coinvolto Imran Khan, una vicenda che in realtà è soltanto la punta di un iceberg tanto enorme quanto pericoloso.
Accanto agli evidenti dissidi interni tra l’ex primo ministro pachistano e una parte dell’esercito, infatti, troviamo una crisi politica sempre più aspra, che si affianca a quella economica e alle numerose tensioni geopolitiche, tra la piaga del terrorismo e la feroce rivalità con l’India. In uno scenario del genere, vale la pena ricordare che il Pakistan possiede un arsenale nucleare stimato in circa 165 testate atomiche. E che, secondo l’ACA (Arms Control Association), si tratterebbe dell’arsenale atomico in più veloce espansione rispetto a qualsiasi altro Stato.
Non una prospettiva beneaugurante, per una nazione dove le lotte intestine politiche sono comuni, nessun primo ministro ha ancora adempiuto a un intero mandato dalla sua fondazione, nel 1947, e dove l’esercito ha governato per quasi metà della storia del Paese.
Ecco perché, da qualunque prospettiva la si guardi, Islamabad rappresenta una sorta di variabile impazzita incastonata nel cuore dell’Asia che rischia di esplodere da un momento all’altro, provocando un doppio effetto domino, sia regionale che globale.

La crisi politica
Imran Khan, al centro di forti tensioni politiche e da oltre un anno coinvolto in decine di provvedimenti giudiziari, è stato arrestato dai militari, lo scorso 9 maggio, mentre si stava recando in un tribunale della capitale.
“Imran Khan è stato arrestato nel caso Qadir Trust”, ha riferito l’account Twitter ufficiale della polizia di Islamabad, riferendosi a un caso di corruzione specifico. Secondo i documenti trapelati Khan, sua moglie Bushra Bibi e i loro stretti collaboratori, Zulfiqar Bukhari e Babar Awan, avrebbero formato un fondo per istituire “l’Università Al-Qadir” in modo da poter impartire “un’istruzione di qualità” nel Sohawa tehsil di Jhelum. Successivamente, gli amministratori avrebbero firmato un Memorandum d’intesa con una società privata coinvolta nel settore immobiliare per ricevere donazioni da quest’ultima. L’azienda avrebbe assegnato al fondo anche un terreno. Ebbene, a neanche due giorni dall’arresto, la Corte suprema del Pakistan ha definito “illegale” l’arresto di Khan e ordinato il suo “rilascio immediato”.
Nel frattempo, l’intera nazione è stata travolta dalle proteste. In diverse città migliaia di sostenitori dell’ex leader sono scesi in strada, costringendo le forze di sicurezza ad intervenire facendo ampio uso di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua. Il bilancio parla di almeno 10 persone uccise e 2.000 arresti, senza considerare l’inasprimento dei dissidi tra Imran Khan e una parte dei militari.
Il partito Tehreek-e-Insaaf dell’ex primo ministro aveva definito il suo arresto un “rapimento” e promesso di opporvisi in tutti i modi. In tutta risposta, i militari hanno arrestato altri leader del movimento politico di Khan, ovvero il portavoce dello stesso partito, Fawad Chaudhry, e l’ex ministro degli Esteri, Shah Mahmood Qureshi, entrambi fermati con l’accusa di “incitamento a protestare in modo violento e a incendi dolosi nell’ambito di un piano ben orchestrato per minaccia la pace”.
In attesa di capire quali saranno le mosse di Islamabad, basti rimarcare un fatto: l’ultima crisi politica è stata innescata nell’aprile 2022, con l’estromissione di Imran Khan dalla sua carica di primo ministro mediante un voto di sfiducia. L’establishment che aveva inizialmente appoggiato Khan nel 2018, temendo probabilmente di sparire dai radar, si è rivoltato contro l’ex campione di cricket. Il risultato è che adesso alla guida del Paese, nel ruolo di primo ministro, troviamo Shehbaz Sharif. Ma la situazione rischia di finire fuori controllo, proprio a causa dello scontro intestino tra varie fazioni politiche, esercito, intelligence e apparato giudiziario.

La crisi economica
Khan spera di risorgere dalle ceneri ma il tempo stringe. Anche perché la crisi politica che sta travolgendo il Pakistan sta erodendo le speranze che il Paese possa rimettere presto in carreggiata il programma necessario per ottenere un ulteriore pacchetto di salvataggio dal Fondo monetario internazionale (FMI) e sfuggire ad una crisi del debito in piena regola.
La nazione di 230 milioni di abitanti, intanto, si prepara a tenere elezioni combattute in autunno mentre affronta la peggiore crisi economica degli ultimi decenni, con riserve in diminuzione e un programma del FMI da 6,5 ​​miliardi di dollari in scadenza a giugno e ben poche altre fonti di finanziamento in vista. A peggiorare la situazione, la rupia pakistana ha perso quasi il 50% negli ultimi 12 mesi.
Sebbene uno scenario del genere non sia una novità per il Pakistan e i suoi investitori, l’ultimo terremoto ha davvero complicato la discussione con l’FMI. Sono passati quasi 100 giorni dall’ultima missione del personale del Fondo in Pakistan, e le due parti devono ancora concludere un accordo preliminare, un passo fondamentale per assicurarsi la prossima tranche di finanziamento. Intanto, le riserve di valuta estera a 4,457 miliardi di dollari coprono appena un mese di importazioni.
La cattiva gestione del governo è stata aggravata dalla pandemia di Covid-19 e dalla guerra in Ucraina, che ha fatto salire il costo del cibo e del carburante. Le devastanti inondazioni dello scorso anno hanno sommerso vaste aree di terreni agricoli, costringendo più agricoltori alla disoccupazione.
I dati , come ha sottolineato Foreign Policy, sono allarmanti. Il debito pubblico totale è stimato a 270 miliardi di dollari, pari a circa il 78% del PIL. La Cina è il più grande creditore bilaterale del Pakistan, con un debito di circa 30 miliardi di dollari, e altri 1,1 miliardi di dollari dovuti per acquisti di elettricità alle imprese cinesi.
L’FMI vorrebbe vedere una migliore riscossione delle tasse e minori sussidi energetici in cambio di qualsiasi salvataggio, ma Sharif finora ha resistito. Attuare misure del genere equivarrebbe ad un suicidio politico.

I dossier in ballo
L’esacerbazione della crescente povertà potrebbe, innanzitutto, aumentare il reclutamento di gruppi terroristici come il Tehrik-i-Taliban Pakistan, un’affiliata dei talebani nel vicino Afghanistan, la cui forza crescente nel nord-ovest del paese sta minacciando la sopravvivenza dello stato.
L’altro dossier caldissimo riguarda la rivalità con l’India: nel caso in cui il combinato tra crisi politica ed economica dovesse prendere il sopravvento, c’è il forte rischio che una delle fazioni più intransigenti possa prendere il potere, o peggio, mettere le mani sull’arsenale nucleare.
Per quanto riguarda la Cina, Pechino aveva puntato sul Pakistan nell’ottica della Belt and Road Initiative (BRI). I riflettori cinesi sono stati a lungo puntati sulla città pakistana di Gwadar, sul Golfo dell’Oman. Il Corridoio Economico Cina-Pakistan (Cpec), il progetto con il quale Pechino ha incluso Islamabad nella Nuova Via della Seta come uno dei Paesi più strategici, era stato ideato allo scopo di collegare la provincia cinese dello Xinjiang al porto di Gwadar. L’obiettivo? Offrire uno sbocco sul mare (Mar Arabico) al Dragone.
Il cosiddetto Cpec prevede la costruzione di strade, ferrovie, oleodotti e gasdotti che partono dalla Cina, attraversano il Pakistan e giungono al mare, puntando a collegare commercialmente la Cina con l’Europa, l’Asia e l’Africa. Il maxi piano infrastrutturale, dal valore di 58 miliardi di dollari, è però per il momento naufragato in alto mare.
In generale, il worst case scenario di un Pakistan anarchico e fallito, dotato di armi nucleari e dominato da fanatici religiosi che potrebbero unirsi ai talebani in Afghanistan per stabilire un califfato islamico, è un incubo per l’India, la Cina e per il mondo intero.

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