giovedì 9 Maggio 2024

Sudan: bugie e provocazioni

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La classica campagna di disinformazione e di preparazione all’aggressione terroristica, con i soliti ascari e i soliti boccaloni, ha ormai preso il via: il Sudan è il prossimo “stato canaglia” destinato al martirio. Si veda la vicenda della Cap Anamur, la nave di profughi “sudanesi” (che tutto erano fuorché sudanesi) che tanto ha impietosito il pubblico nostrano. I burattinai dello spettacolo non sono andati in ferie.

[…]



Finisco con un episodio altamente rappresentativo di quanto sopra. Sudan. Nei caldi giorni di giugno-luglio, che la Resistenza irachena, i contraccolpi in Afghanistan, l’efficace risposta politica di Cuba all’aggressività statunitense con intendenza europea al seguito, e la tenuta di Hugo Chavez in Venezuela, la botta Zapatero, facevano ribollire ulteriormente sotto i piedi dell’establishment imperialista, tutti presero a occuparsi con crescendo da visibilio del Sudan. Un depistaggio salutare per gli occupanti, invasori e cospiratori sotto tiro: via dalle umiliazione di una guerra in via di sconfitta in Iraq come in Afghanistan, via dall’invadenza di Guantanamo, via da Abu Ghraib, via dai sondaggi di un Bush sullo scivolo. Via verso un prodotto tenuto da tempo sullo scaffale, come quel farmaco inventato negli anni ’60 e a cui l’AIDS, scoperto, forse, secondo mezza dozzina di Nobel, fabbricato, vent’anni dopo, offrì il lungamente sospirato mercato. Via verso quell’”umanitarismo” che tanto bene aveva funzionato per la Jugoslavia. Solo pochi giorni prima della fenomenologia Sudan, quel paese era riuscito a comporre una quarantennale guerra civile istigata da forze esterne – statunitensi, israeliani, Vaticano – facendo leva sul solito separatismo etnico-confessionale. Non solo aveva indebolito gli strumenti cospiratori degli destabilizzatori esterni, ma aveva anche stretto – colpa gravissima – rapporti privilegiati di collaborazione economica con la Cina. Il Sud, ricco di risorse petrolifere, idriche e lignee, era stato conteso tra un governo centrale e forze secessioniste che, oltre a tutto, erano ferocemente divise tra loro. L’ONU ha calcolato che la maggioranza dei profughi e delle vittime era dovuta allo scontro tra bande antigovernative. L’accordo, firmato in Kenya, risultò assai vantaggioso per le forze ribelli di John Garang e loro sponsor (comboniani e petrolieri) e assai gravoso per lo Stato. Khartum acconsentì a minare l’unità nazionale concedendo ai leghisti del Sud vaste proporzioni dei redditi petroliferi e un referendum su unità o secessione tra sei anni.



Non si è asciugato l’inchiostro della firma di pace, che nelle regioni occidentali del paese, da sempre a rischio di desertificazione e carestia, spuntano ben due “eserciti di liberazione nazionale”, ai quali si oppone una milizia di autoprotezione degli abitanti chiamata Janjaweed , sostenuta, si afferma, dal governo di Omar al Bashir, che peraltro si è subito impegnato a disarmarla (disarmo che gli “umanitari” internazionali non chiedono affatto per i terroristi secessionisti armati dai soliti destabilizzatori del Sud). Agenzie, televisioni e giornali di tutto il mondo si riempirono subitaneamente – seppure tutti privi di inviati sul posto, ma generosamente imbeccati dall’ONG di regime americana UsAid – di cronache raccapriccianti sugli orrori perpetrati…da chi? Ma naturalmente dal governo e dalle sue milizie. Insomma, delinquente diventa non chi cerca di spaccare il paese, ma chi ne difende l’unità, in particolare contro le

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