lunedì 19 Agosto 2024

Quell’incognita in America Centrale

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Gli Usa impegnati nel giardino di casa

La competizione tra grandi potenze non si sta combattendo soltanto in Eurafrasia, il continente-mondo, ma anche nel monroano cortile di casa degli Stati Uniti, ovverosia le Americhe Latine.
Non è una questione di Stati Uniti contro Russia e Repubblica Popolare Cinese, perché, contrariamente alla vulgata, tra Città del Messico e Buenos Aires è in corso un vero e proprio bellum omnium contra omnes che sta dilaniando il subcontinente. Tra le giungle dell’Amazzonia e la Triplice frontiera si fronteggiano Israele e Iran. Nei quartieri poveri e nei ghetti delle megalopoli si consuma una battaglia georeligiosa tra Chiesa cattolica, internazionale evangelica e islam. E all’ombra delle rivalità tra le grandi potenze hanno luogo guerre a bassa intensità e faide mafiose di proporzioni apocalittiche, mentre narcotrafficanti e terroristi islamisti fanno affari, riciclano denaro e pianificano attentati, dal Messico all’Argentina.
Nelle Americhe Latine, cortile di casa degli Stati Uniti e zona grigia del pianeta, è dove si scriverà, o meglio sta già venendo scritto, un capitolo fondamentale della competizione tra grandi potenze: quello avente a che fare con la riscrittura della globalizzazione. Questo è il motivo per cui, sullo sfondo degli accadimenti nelle inflazionate Cuba e Venezuela, andrebbe prestata maggiore attenzione al più bistrattato Nicaragua, che è il luogo in cui potrebbe vedere luce un canale artificiale capace di rivaleggiare con Panama e di riscrivere le catene globali del valore.

Da Cortés a Napoleone III
La crisi kazaka di gennaio 2022 ha segnalato l’entrata definitiva della guerra fredda 2.0 in un nuovo stadio – quello delle periferie al centro –, confermando una transizione preludiata da mesi di avvisaglie ed eventi premonitori. E il piccolo ma geostrategico Nicaragua potrebbe giocare un ruolo-chiave all’interno di questa fase.
Il motivo per cui non vanno tolti gli occhi dal Nicaragua è tanto semplice quanto semisconosciuto: trattasi di quello che in geofilosofia è chiamato un “luogo del destino”. E lo è in virtù di due caratteristiche inalterabili, che lo rendono, da sempre, il tormento degli Stati Uniti: la presunta predisposizione genetica all’antiamericanismo e la conformazione geostrutturale che qui vi consentirebbe di realizzare un canale superiore, per capacità e qualità, a quello di Panama.
La storia del Nicaragua è anche, e soprattutto, la storia del Canale del Nicaragua. Le due sono la stessa cosa, un tutt’uno inscindibile che, da sempre, è l’anelito maggiore di ogni patriota nicaraguense ed è il tormento di ogni inquilino della Casa Bianca. E scrivere e parlare di questo canale mai realizzato è, oggi, più importante che mai.
Si potrebbe affermare che la storia del canale del Nicaragua ha avuto inizio con lo sbarco dell’uomo europeo nelle Americhe Latine, più precisamente con la visione di Hernán Cortés relativa ad un modo per unire i due oceani. Ma il vero progenitore del canale di collegamento tra Atlantico e Pacifico fu Napoleone III, l’ambizioso nipote del più celebre Bonaparte.
Erano gli anni Sessanta dell’Ottocento e Napoleone III, pioniere dell’antiamericanismo europeo, fantasticava di edificare un canale di navigazione artificiale che tagliasse in due il Nicaragua, creando un amalgama tra Brito e Punta Gorda via Cocibolca. Difficile stabilire i costi di una simile opera idraulica, ma facile prevederne l’impatto: la riscrittura della geografia del capitalismo globale a mezzo dell’unione dei mercati di Americhe ed Eurafrasia, con un Nicaragua sottomesso alla Francia al centro di tutto.
Napoleone III, che dallo zio aveva ricevuto la visionarietà e la voglia irrefrenabile di grandeur, aveva elaborato un piano (quasi) perfetto, dalla vassallizzazione del Messico agli accordi sui diritti di sfruttamento del canale col Nicaragua, ma, alla fine, avrebbe pagato a caro prezzo la sottovalutazione del fattore Stati Uniti.
Il regno di Massimiliano d’Asburgo, l’imperatore fantoccio messo da Napoleone III a capo del Messico nel 1864 – approfittando della concomitante guerra civile americana –, avrebbe avuto una vita troppo breve per permettere l’apertura dei cantieri in Nicaragua.
Nel 1867, fallita la via diplomatica, gli Stati Uniti diedero istruzione agli agenti in loco di ripristinare lo status quo ante bellum e trarre in arresto quell’imperatore venuto dal Vecchio Continente per violare la dottrina Monroe. Una violazione che avrebbe pagato con la vita, morendo fucilato. Napoleone III, a partire da quel momento, non avrebbe più tentato di intrufolarsi nel cortile di casa degli Stati Uniti, mentre le altre potenze europee, recepito il monito, iniziarono a rispettare con timore reverenziale la dottrina Monroe.

Le ambizioni tedesche
Circa trent’anni dopo il tentativo di Napoleone III, negli anni Novanta, sarebbe stato un latinoamericano, il presidente nicaraguense José Santos Zelaya López, a tirar fuori il canale dal cassetto dei ricordi. Zelaya, attenzionato speciale della Casa Bianca per via dei suoi frequenti dissapori con le grandi corporazioni multinazionali a stelle e strisce, voleva che il canale dei due oceani fosse costruito in Nicaragua anziché a Panama.
La proposta di Zelaya non trovò accoglienza negli Stati Uniti, che, del resto, anelavano a Panama per una ragione ben precisa: il ridimensionamento della Colombia – un imperativo strategico sin dai tempi di John Quincy Adams. Il presidente nicaraguense, lungi dal demordere, avrebbe proposto il canale a Giappone e Germania, riscontrando un certo interesse in quest’ultima.
Era l’epoca della corsa alle armi, preludio della Grande guerra, e Zelaya voleva sfruttare a proprio vantaggio le ambizioni antiamericane della Germania di Guglielmo II su Mesoamerica – anni dopo palesate dal carteggio Zimmermann – e Mar dei Caraibi. I tedeschi avevano il capitale, la tecnologia e, non meno importante, la sfrontatezza: erano i candidati ideali ai quali proporre un canale in grado di riscrivere la divisione del potere nel mondo.
Nel 1909, fallito ogni tentativo di sabotare i negoziati tra Managua e Berlino e di rovesciare la presidenza a mezzo delle quinte colonne in loco, Washington decise di suturare d’urgenza la vena scoperta e sanguinante del continente, deponendo il ribelle Zelaya e fomentando l’avvio di un lungo ciclo di anarchia produttiva utile a inibire a tempo indefinito il riapparire di un esiziale antiamericanismo e il riemergere della questione del canale.

Il ritorno della storia in Nicaragua
Nel giugno 2013, a cavallo tra la fine della Guerra al terrore e l’inizio della guerra fredda 2.0 tra Occidente e Russia, la Repubblica Popolare Cinese metteva a segno un colpo grosso in Nicaragua: il via libera ad una proposta di canale presentata dal Gruppo HKND di Wang Jing.
Wang aveva ottenuto dall’Assemblea nazionale del Nicaragua la concessione all’utilizzo del canale in divenire per un periodo di cinquant’anni, con possibilità di rinnovo per altro mezzo secolo. In sintesi: opportunità per Wang, e dunque per Xi, di avere le chiavi della rotta transpacifica – da dove transita circa un sesto del commercio mondiale – per cento anni.
Era tutto pronto: gli studi di fattibilità erano stati effettuati, il piano spese era stato realizzato – un investimento complessivo compreso tra i quaranta e i cinquanta miliardi di dollari –, gru ed escavatori erano stati posizionati da un capo all’altro del Paese, un piccolo esercito di operai era stato reclutato e la Russia era pronta a entrare nel progetto. Ma i cantieri, ad un passo dall’inaugurazione, non sarebbero mai stati aperti.
Nel 2014, con l’approssimarsi dell’inizio dei lavori, ambientalisti e opposizione avrebbero cominciato a protestare contro il canale, ritenendolo un’opera tanto nociva per l’ambiente, vista l’aura nebulosa circondante gli studi di fattibilità, quanto per la sovranità nazionale, in quanto ritenuta un’espressione di neocolonialismo. Le rassicurazioni del presidente Daniel Ortega non avrebbero avuto nessun impatto, se non quello di esacerbare la tensione e trascinare il Nicaragua in una nuova guerra civile, da allora mai terminata.
Wang, testimone della caduta del Nicaragua in una condizione semi-anarchica, avrebbe ibernato a tempo indefinito il progetto. Il rischio di un maxi-investimento ridotto in cenere in caso di cambio di regime, o di sabotaggi ai cantieri, era troppo elevato. L’amministrazione Obama ce l’aveva fatta: costringere i cinesi alla fuga, indebolire in maniera cronica un regime ostile, arrestare temporaneamente lo sviluppo del ramo latinoamericano della Nuova Via della Seta.
Salvato dall’intervento in extremis della Russia, che in Nicaragua ha inviato specialisti della guerra ibrida e della soppressione delle sedizioni poco dopo lo scoppio dei moti, Ortega è riuscito gradualmente a ripristinare l’ordine, abbassando il livello della tensione e riducendo la violenza della quasi-guerra civile. Un supporto vitale, al quale ha ricambiato non appena possibile: dapprima aprendo un consolato onorario in Crimea nel 2020 e dipoi offrendosi di ospitare basi militari russe sul proprio nicaraguense nel gennaio 2021.
Scrivere del tormentato canale del Nicaragua è importante perché, dopo anni di stallo, l’aggravarsi della conflittualità tra i blocchi occidentale e orientale, alla base dell’entrata della competizione tra grandi potenze nello stadio delle periferie al centro, potrebbe sancirne il disgelo. Perché alcuni fatti, tra i quali la ricomparsa di Wang dopo la riconferma alla presidenza di Ortega nel 2020 e l’adesione del Nicaragua alla politica dell’una sola Cina nel 2021, sembrano indicare che nel dietro le quinte del palcoscenico si stia discutendo, di nuovo, di questo canale voluto da tutti e costruito da nessuno.

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