giovedì 18 Luglio 2024

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Fumavamo, ci piacevano le donne e celebravamo il rito del caffé. Ora ci stiamo anglosassonizzando. E dopo aver criminalizzato il tabacco e la spensieratezza eterosessuale non ci piace più nemmeno il
caffé.

MILANO – Un tempo neppure uno avaro come il cavalier Pezzella, il Totò de «I tartassati», ci sapeva rinunciare. Anzi, lui ne prendeva addirittura «tre alla volta per risparmiare due mance». Oggi il rito del caffè fuori casa sembra al tramonto. Secondo un’indagine di Bain Company, presentata ieri a Milano al convegno «I debiti del caffè al bar», le tazzine servite nei locali pubblici sono il 20% in meno rispetto al 1990. Solo negli ultimi quattro anni, il calo è stato dell’11%. Eppure il caffè è ancora la bevanda più diffusa d’Italia dopo l’acqua. Ne consumiamo 650 all’anno pro capite, quasi il doppio della media europea. Ma preferiamo farlo a casa o direttamente in ufficio.Secondo Fipe Confcommercio, non è solo colpa del caro-euro. E’ che il caffè servito al bar non è più buono come una volta. Ogni giorno, nei 131 mila pubblici esercizi italiani, si bevono 30 milioni di caffè, un terzo sul totale del caffè consumato. Gli altri escono dalle moke tradizionali oppure dalle macchine espresso di casa: l’anno scorso ne sono state vendute 20 mila, il 9% in più rispetto al 2002. Ma il vero protagonista emergente del mercato sono le macchinette automatiche da ufficio. Dieci anni fa se ne trovavano soltanto nei grandi open space delle multinazionali. Oggi sono pure dal barbiere. Uno su dieci dei caffè che beviamo viene proprio da questi macchinari. Un po’ annacquati, in bicchieri di plastica, non saranno l’ideale ma si consumano in fretta e hanno un altro vantaggio: non costano più di 50 centesimi.
Ben diversi i prezzi al bancone del bar. Per una tazzina di espresso (8 grammi di caffè), secondo i calcoli di Bain Company, i torrefattori pagano ai coltivatori 0,68 centesimi di euro, rivendendolo agli esercenti a 14 centesimi. Il prezzo finale varia da regione a regione: il record spetta al Trentino Alto Adige, 95 centesimi, mentre il caffè meno caro si beve in Molise (62). In media, al Nord costa 87 centesimi la tazzina, al Centro 77, al Sud 70. E’ il caro caffè, dunque, il responsabile della crisi? Secondo gli esercenti no. E lo dimostra il fatto che i locali d’ élite , quelli dove un caffè arriva anche a 2 euro, godono di ottima salute. A passarsela male sono invece i bar tradizionali, che rappresentano l’82% del totale, ma realizzano solo il 55% del giro d’affari. La ragione vera della crisi avrebbe origine nel lontano Vietnam: dopo la conversione delle piantagioni al caffè, negli anni ’90, è stata un’invasione di miscele, che dall’Oriente sono arrivate fin dentro le nostre tazzine. Qualità inferiore alla vecchia Arabica sudamericana (su questo gli esperti sono tutti concordi), ma costo all’ingrosso fino a cinque volte più basso. Tanto che oggi un espresso su tre, fra quelli che si comprano al bar, è fatto proprio con caffè orientale. «Sempre più spesso il barista sceglie i fornitori solo perché gli propongono l’offerta più conveniente, il prestito gratuito dei macchinari e le tazzine in regalo – ha spiegato Edi Sommariva, direttore generale di Fipe Confcommercio -. Anche se alla fine i conti non tornano». Nel 1990 a fine giornata il barista aveva venduto due chili di caffè, di questi tempi poco più di un chilo e mezzo .

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