martedì 22 Ottobre 2024

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Riflessi smartphone: destrutturazione della mente logica e illogica

 

Le valutazioni Invalsi/Pisa mostrano che i ragazzi imparano sempre meno. Il ministro Lorenzo Fioramonti sembra stupito del grave peggioramento della situazione rispetto a quella di vent’anni fa: peccato che fosse nota e largamente prevista. La questione è molto più complicata dell’affare di bottega tra sinistra e destra, cui i nostri ministri dell’Istruzione tentano di ridurla a ogni prova Invalsi, per farsi un altro triennio di poltrona ministeriale e poi chi si è visto si è visto.

Stavolta però non potranno più cavarsela con più o meno roboanti promesse di «innovazione», che poi non fanno altro che buttar giù anche quei pezzi di scuola italiana che ancora funzionano, come hanno provato recentemente togliendo anche il residuo miniprogramma di storia, che può aiutare i pochi volonterosi a rendersi conto della propria collocazione nel mondo, al netto di Whatsapp.

Se fosse stato per i rinnovatori ministeriali non avremmo avuto più neppure i licei (a cominciare dal classico), le uniche realtà scolastiche al passo con i tempi, sia come richiesta dei giovani, che come opportunità professionali, tuttora garantite. Anche dal punto di vista internazionale, gli alunni del classico hanno performance che competono con quelle dei Paesi più avanzati. Come mai? Perché non sono programmi fondati su chiacchiere e mode passeggere, come quelle cui sono stati abbandonati gli altri ordini di studio, ma su saperi autentici, collaudati nel tempo e nei bisogni reali (anche del cervello, per potersi sviluppare davvero). Disprezzati però da interi schieramenti politici formatisi sulle parole crociate, i Grandi fratelli o le università di Internet.

Per fortuna non sono ancora riusciti a far sopprimere i licei, ma intanto hanno distrutto una rete di scuole di arti e mestieri che formava artigiani i cui saperi sono noti e invidiati nel mondo per scambiarle con lauree triennali ridicole, magari conseguite via Internet. Non è neppure solo questione di destra e sinistra: l’idolatria mercatista con i suoi vitelli d’oro è altrettanto micidiale dal punto di vista formativo e culturale del «tutti laureati» di una sinistra che nulla sapeva del capitalismo e delle sue crisi e trasformazioni, già in atto da un pezzo. Sono due ignoranze unite dalla comune avversione per la fatica: in particolare quella di imparare qualcosa.

L’origine dei disastri Invalsi è un’altra, neppure solo italiana: è la scatoletta che ragazzi e politici hanno sempre in mano, e che ha trasformato le loro vite: lo smartphone. Un modo di (non) vita, di non pensiero e di non formazione. È infatti noto, e confermato a ogni prova e sondaggio, che dal 2007, l’anno di inizio della produzione di Iphone, l’apprendimento in ogni materia, come anche la produttività nelle aziende, si sono prima arrestati per poi scendere. I nostri ministri della Pubblica istruzione, che autorizzano gli smartphone nello zaino, quando non sul banco, sono espressione non di politiche culturali ma di interessi corporativi, primi fra tutti i potentissimi sindacati della scuola che si opposero ferocemente (ad esempio) al progetto di rilancio della scuole di arti e mestieri del ministro Letizia Moratti. Una persona che conoscendo davvero e non per sentito dire le dinamiche produttive sapeva bene quanto fosse forte la domanda di quelle competenze, considerate da politici e sindacalisti poco dignitose, e quindi inabissate nel burocratese sindacale della programmazione scolastica. Oggi però il problema è più grave e noto a tutti, tranne ai politici che vivono fuori dal mondo che studia e che lavora.

La questione riguarda l’intero Occidente in cui si impara sempre meno, e ha a che fare oggi soprattutto con lo spazio preso nella testa e nella vita dei ragazzi appunto dallo smartphone, il Grande fratello con cui passano ormai gran parte del loro tempo. Apprendere, imparare, impegnarsi sono l’opposto dello smartphone, il grande divagatore. Per apprendere bisogna volerlo, decidere attivamente di prendere da altri delle nozioni, dei saperi. Gli investigatori più determinati, gli statistici più impegnati nell’interpretare i fenomeni sono il bambino di pochi mesi, o persone colpite da incidenti gravissimi, immobilizzati, ciechi, privi di un intero emisfero del cervello, in tremende situazioni di privazione (come racconta Stanislas Dehaene, presidente del Consiglio scientifico del ministero dell’Educazione nazionale francese nel suo libro Imparare. Il talento del cervello. La sfida delle macchine, Cortina editore). È sempre la mancanza a stimolare la volontà di apprendere con forza, di scoprire, imparare, sapere; come è la povertà a spingere a guadagnare denaro.

Il bambino con uno smartphone in tasca invece, ha già tutto. Tutti i luoghi, tutte le (pseudo) conoscenze, tutti i piaceri. Questa sovrabbondanza, come mostra tutta la sociologia della ricchezza, dall’infanzia principesca del Buddha all’episodio del giovane ricco del Vangelo (che si allontana «triste», da Gesù), ha un inevitabile effetto depressivo. Ciò che è davvero eccitante e ti fa crescere è desiderare, immaginare, andare verso qualcosa d’altro, non avere tutto in tasca (lo conferma sia la psicoterapia con gli adolescenti che quella con i genitori). Iphone e gli altri supporti invece sono molto più forti dei ragazzi, li portano dove fa comodo a Google, e li lasciano lì. Certo, hanno miriadi di informazioni, ma proprio per questo rendono passivi chi li utilizza. L’ultimo degli smartphone demolisce in un batter d’occhio quelli che Dehaene chiama «i quattro pilastri dell’apprendimento»: l’attenzione, l’impegno attivo multisensoriale (“il cervello deve generare delle ipotesi, con curiosità”), la sorpresa e il riconoscimento dell’errore. Per fare tutto questo però servono rischio, fatica, una certa dose di solitudine, mentre lo smartphone non ti molla mai e ti porta comodamente a spasso in un mondo già abbastanza noto. Comunque è lui che con le sue divagazioni anticipa e spegne quell’attenzione affamata di sapere che è necessaria all’apprendimento, che non c’è più. Sostituito da faccette, battute, ahahaha, le piste effettivamente frequentate dai più (anche se anche i kamikaze, quelli che cercano attivamente la distruzione, non faticano poi a trovarla, poco distante dalle prime).

In questo modo, però, il cervello non può sfruttare appieno le sue potenzialità e tende a ridurle; mentre per svilupparlo bisogna usarlo, direttamente (come ha dimostrato la recente scoperta della plasticità cerebrale). Un po’ come i muscoli: se li usi si sviluppano, altrimenti si rattrappiscono. (Sui brutti dati di Pisa inoltre bisogna fare attenzione che al Nord non sono affatto brutti, e in molti casi migliori della Germania. Ovunque poi scontano le forti difficoltà degli immigrati).

Il problema dei ragazzi occidentali che imparano sempre meno non si risolverà biascicando in politichese qualche sciocchezza su «innovazioni» risolutrici. Perché il problema è proprio un modello di sviluppo che rende sempre più passivi, e il suo ultimo idolo: lo smartphone.

 

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