La doccia fredda della sconfitta elettorale francese, dopo tanto trionfalismo, è in fondo una buona notizia.
Non sono tra coloro che escludono il valore del voto o che rifiutano la prospettiva di avanzate e consolidamenti politici perché “o tutto o niente”.
Sono però arcistufo di queste attese messianiche di vittorie elettorali che si suppone possano cambiare il mondo anziché essere di supporto a vere e proprie macchine da guerra politiche.
Sono schifato dal fondamentalismo democratico e dalla presunzione trinariciuta anti-elitaria che da anni hanno infettato un ambiente come una vera e propria pandemia.
Sono disgustato dalla spasmodica fregola di ribaltamenti riottosi da parte di popoli che non hanno alcuna coscienza di sé, perché, noi per primi che ce ne riempiamo la bocca e lo stomaco da ranocchia, ci si rifiuta di dargliela.
Sono nauseato da quel viagra sostitutivo delle erezioni in proprio che ha i volti zotici di Putin, di Trump, di Netanyahu.
Sono inorridito dal carrierismo di nulli, mediocri, stupidi e lecchini e dal tifo di uomini seri per costoro.
Sono intollerante per la scelta, in un mondo in cui le punte dell’intelletto e dell’intelligenza sono state a lungo le più acute in assoluto, di punti di riferimento pescati tra gli scarti altrui: i Borghi, i Bagnai, i Fusaro, i Mori, gli Honfray.
Sono disgustato dal servilismo dei principali esponenti di area nei riguardi di Mosca e di Tel Aviv (che poi sono modi diversi di fare i gladiatori del padrone americano).
La doccia fredda è positiva.
Non perché tanto peggio, tanto meglio, ma perché deve spingere a ricentrarci.
In scarsezza (perché sarebbe ingiusto parlare di assenza) di modelli politici radicati, c’è però ben altro rispetto alla sbornia del trionfalismo elettoralista che dovrebbe fare non si sa cosa raggiungendo un’utopica maggioranza, dato che non ha preparato il terreno né ha mai disegnato un programma realistico e fattibile.
Possiamo vantare la consistenza antropologica di ambienti radicati che proprio in Francia, ma anche in Belgio, in Italia, in Spagna, in Ucraìna, in Polonia e presumo altrove, assicurano stabilità e continuità generazionale.
Sono in condizioni di elencarli ma non lo farò perché non è una pubblicità opportuna.
Riuscire a unire questi con una capacità politica radicata è la nostra grande scommessa del futuro.
Ma non basta. Se è vero, e lo è, che c’è carenza di programmi e di mentalità politica radicale, quello che più manca sono gli esempi, sono gli uomini.
Abituati a scivolare sulle parole, a non scandalizzare, a non dire nulla di virile, a meno di scambiare per tale slogan scurrili e imbecilli che non mancano, abbiamo buttato le palle.
Ed è proprio avendo buttato le palle che stiamo appresso al circo dei saltimbanchi populisti e al suo successo per inerzia che si trasforma puntualmente in fallimento per incapacità guerriera, industriale e imprenditoriale.
I numeri impressionanti di chi ha raccolto i frutti di Jean-Marie Le Pen e crede che sia proprio il merito di quanto ottiene e che non sia sua colpa lo sperperare costantemente il risultato, rendono quelli che non stanno nello show e nel regno della quantità indifferenziata, deferenti tifosi dei primi. In fondo si tratta di umiltà, ma è sbagliata.
Si tratta, come già scrivevo venticinque anni fa, di un’inversione della gerarchia delle funzioni indoeuropee e dobbiamo capovolgerla a nostra volta.
Direi che è venuta l’ora di scrollarci di dosso anche questo complesso d’inferiorità.
La doccia fredda della sconfitta elettorale francese, dopo tanto trionfalismo, è in fondo una buona notizia.
C’invita a ricordarci di essere uomini, ma soprattutto di essere e di fare perno sull’essere.