lunedì 1 Luglio 2024

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Quel conflitto a un tiro di schioppo

Un incendio è stato domato e un altro si è appena acceso lungo la superstrada della tensione Mosca-Tirana. Il primo, riguardante la spinosa questione del monopolio sul rilascio e del controllo dei documenti di identità di kosovari transfrontalieri e dei serbo-kosovari, è stato spento nella giornata del 27 agosto dalla concertazione diplomatica euroamericana nell’ambito della piattaforma per il dialogo facilitato Belgrado-Pristina.
La controversia, che tra settembre 2021 e luglio 2022 aveva funto da innesco per episodi di prolungate guerre urbane e brevi-ma-intense insurrezioni, è stata risolta applicando il rasoio di Occam alla risoluzione dei conflitti. Le squadre negoziali di Josep Borrell e dell’amministrazione Biden, infatti, hanno convinto la presidenza Vučić ad “abolire i documenti di ingresso e uscita per i titolari di carta d’identità del Kosovo” in cambio del semaforo verde del governo Kurti a rinunciare all’entrata in vigore dell’obbligo di carte d’identità kosovare per la minoranza serba. Un do ut des che, se venisse rispettato, significherebbe molto per l’Unione Europea, specie in una congiuntura di crisi quale quella attuale.
Nell’attesa e nella speranza che le fiamme della controversia sui documenti di identità si estinguano definitivamente, il che non è detto – una delle due parti potrebbe sempre ritirarsi dall’accordo nel prossimo futuro o, più maliziosamente, farsi generatrice di crisi di simile natura –, altre nubi incupiscono i cieli degli automobilisti che attraversano questa superstrada della tensione: dal promemoria di Maria Zakharova sulla “Russia che non si dimenticherà mai che il Kosovo è Serbia”, eloquentemente lanciato mentre Borrell strappava l’accordo, al risveglio delle mai sopite rivalità interetniche in Macedonia del Nord e ad un’anormale sequela di scandali spionistici in Albania.

Tirana, la nuova capitale europea delle spie
Per Tirana, il cuore pulsante dell’albanosfera e tra le colonne portanti dell’Alleanza Atlantica nei Balcani, quella del 2022 si è rivelata una primavera-estate inusualmente calda. E non per il meteo, quanto per una sequela di scandali spionistici, alcuni scoppiati in rete e altri in stile James Bond tradizionale, che l’hanno resa la capitale europea dello spionaggio.
Il 30 maggio, presso l’aeroporto internazionale della capitale, vengono fermati due cittadini britannici, su segnalazione dell’intelligence albanese, trovando nei loro bagagli dell’equipaggiamento sofisticato per l’intercettazione di comunicazioni e trasmissioni.
A luglio, tra il 18 e il 22, il governo di Tirana informa la cittadinanza della temporanea inaccessibilità ad una serie di siti governativi a causa di attacchi cibernetici provenienti dall’Iran, alcuni progettati per mandare in tilt e distruggere e altri, invece, per rubare dati sensibili per la sicurezza nazionale.
È il 20 agosto, però, che ha luogo il più importante degli episodi, per rilevanza dell’obiettivo – una struttura militare nei pressi di Gramsci – e gravità dell’accaduto – una violenta zuffa. Due soldati impegnati nel pattugliamento dell’area di Gramsci notano tre persone che, con fare sospetto, fotografano le strutture militari. Li fermano, sono due russi e un ucraino, ma la conversazione sfocia istantaneamente in colluttazione, al termine della quale il trio viene tradotto in arresto e i due militari ospedalizzati per le ferite riportate.
La difesa dei tre li dipinge come degli influencer con la passione per i siti militari abbandonati, a Gramsci per lavoro. Ma l’accusa, appoggiata da intelligence e panorama politico stranamente compatto, è di un’altra idea: quella dei feticisti dell’abbandono è una copertura per la loro vera missione, lo spionaggio, che spiegherebbe la loro opposizione al controllo e il possesso, tra le varie cose, di “due droni, quantità significative di denaro, un dispositivo per la visione notturna […] e sei telefoni cellulari”.

L’importanza della Cintura delle Aquile
La geostrategia, disciplina dimenticata nella post-storica Europa, è la principale ragione esplicativa del crescente interesse dei rivali-chiave dell’Occidente verso il Triangolo delle aquile. Iran, Repubblica Popolare Cinese, Russia e l’ambigua aminemica Turchia stanno investendo, da anni, nell’espansione della loro orma all’interno di questo microcosmo civilizzazionale sorto dalle ceneri della Iugoslavia, espressione della grande Serbia, su lungimirante intuizione degli Stati Uniti.
Il crescendo di tensioni lungo la Belgrado-Pristina e di trame fleminghiane lungo la Mosca-Tirana sono la conseguenza naturale e inevitabile dell’avvenuta presa di coscienza dei capifila del Rest sulla rilevanza del Triangolo delle aquile per il West. L’albanosfera è uno dei frammenti della Terza guerra mondiale a pezzi. Perché Tirana è balcone sull’Adriatico, Pristina è la chiave di volta per risvegliare gli spettri inquieti della defunta Iugoslavia – inclusa Banja Luka – e Skopje è una nazione immatura – dal punto di vista identitario – e divisa – lungo linee di faglia etno-civilizzazionali – il cui equilibrio poggia sul filo del rasoio.
L’albanosfera può svolgere tante funzioni, a seconda di come la si utilizzi, e cioè essere una testa di ponte per un’ulteriore espansione nei Balcani, come un contenitore di spinte centrifughe o un potente irradiatore di anarchia produttiva e contagiosa. E anche se dal 2008 non si torna indietro, perché il Kosovo è la linea rossa degli Stati Uniti, e l’americanità dell’albanosfera è fuori discussione, nulla vieta agli sfidanti dell’unipolarismo di ivi giocare le carte a loro disposizione. Nella speranza-aspettativa che appiccando un incendio ad un cespuglio, ad esempio Pristina, si possano investire l’intero cortile, i Balcani, e danneggiare la casa, l’Occidente. Nel contesto della competizione tra grandi potenze. E con orizzonte la transizione multipolare.

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