martedì 22 Ottobre 2024

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L’Asia, da un paio di decenni, è diventata il fulcro dell’economia mondiale. L’asse del commercio globale, trascinato dal gigante cinese e da quello indiano, si è spostato nel continente che si affaccia su due oceani (Indiano e Pacifico) e sul Mar Glaciale Artico. Di conseguenza anche l’asse geopolitico ha sostanzialmente abbandonato l’Europa per spostarsi in Estremo Oriente, diventato, infatti, teatro di accese diatribe riguardanti rivendicazioni territoriali intimamente legate, più che a questioni di prestigio nazionale, all’aspetto economico/strategico. In questo settore di globo, che prende il nome di Indopacifico, da circa tre lustri si stanno affrontando, sempre più esplicitamente, le due potenze globali odierne – gli Stati Uniti e la Cina – proprio per via dell’importanza strategica di quei mari che, dal Pacifico all’Indiano, circondano il continente asiatico.

Passaggi obbligati
Stante queste premesse, e guardando una carta geografica dell’Asia, salta subito all’occhio che tra i due oceani esistono dei passaggi obbligati che diventano fondamentali proprio per via dell’importanza raggiunta dai volumi di traffico commerciale che li attraversano.
Le rotte marittime che viaggiano, nei due sensi, tra Pacifico e Indiano passano tutte essenzialmente per tre “strozzature”: lo Stretto della Malacca, tra Malesia e Indonesia, lo Stretto della Sonda, tra le isole di Giava e Sumatra, e lo Stretto di Lombok, tra l’isola da cui prende il nome e Bali.
Il passaggio della Malacca ha anche una particolare morfologia che limita il transito delle navi più grandi: la sua profondità minima, in alcune zone dove il braccio di mare si restringe particolarmente, è di 25 metri, pertanto quelle unità che come dimensioni superano una lunghezza di 470 metri, una larghezza di 60 ed un pescaggio di 20 (limiti definiti Malaccamax), devono forzatamente utilizzare uno degli altri due stretti.
Più della metà del tonnellaggio annuale dell’intera flotta mercantile mondiale passa attraverso questi tre choke points, con la maggior parte che prosegue nel Mar Cinese Meridionale. Il traffico di navi cisterna attraverso lo stretto di Malacca è più di tre volte maggiore del traffico del Canale di Suez e ben oltre cinque volte di più del Canale di Panama. Praticamente tutto il trasporto marittimo che attraversa lo stretto di Malacca e della Sonda deve passare vicino alle ben note Isole Spratly, occupate dalla Cina e rivendicate da altri Stati rivieraschi.
Nella fattispecie, quasi un terzo del commercio marittimo mondiale transita ogni anno nel Mar Cinese Meridionale per un valore complessivo di circa 4mila miliardi di dollari (nel 2016 erano 3400). Otto dei dieci porti capaci di movimentare container più trafficati del mondo si trovano nella regione dell’Asia-Pacifico. Più di un terzo delle spedizioni mondiali di petrolio (circa il 35%) transitano attraverso l’Oceano Indiano verso il Pacifico, in gran parte verso una Cina sempre più affamata di energia, di queste, più del 90% che hanno attraversato il Mar Cinese Meridionale sono transitate per lo Stretto della Malacca, la rotta marittima più breve tra i fornitori in Africa e nel Golfo Persico e i mercati in Asia, rendendolo uno dei principali choke points per il petrolio del mondo. Cina che, col suo 80% delle importazioni di petrolio transitanti dal Mar Cinese Meridionale, non è l’unica a dipendere in modo vitale da quegli stretti: circa due terzi delle forniture energetiche della Corea del Sud e quasi il 60% delle forniture energetiche del Giappone e di Taiwan sono passate da quel tratto di mare conteso.

Petrolio, gas e pesca
Oltre al petrolio in transito, in tutta la regione del Sudest Asiatico esistono importanti riserve di idrocarburi in fase di valutazione e sfruttamento. L’Usgs, il servizio geologico degli Stati Uniti, ha calcolato, in un rapporto del 2020, che nell’area, tra depositi offshore e a terra, ci siano risorse tecnicamente recuperabili pari a 10,5 miliardi di barili di petrolio e 7700 miliardi di metri cubi di gas distribuiti in 33 province geologiche individuate dalla ricerca esplorativa. Per fare un paragone, sempre secondo l’Usgs, le riserve di idrocarburi recuperabili nella piattaforma continentale esterna e nella scarpata continentale del Golfo del Messico, una delle aree più produttive del mondo, sono state stimate in circa 2,98 miliardi di barili di petrolio e 1100 miliardi di metri cubi di gas.
Tutta l’area, in particolare i mari a nord degli stretti qui considerati, è particolarmente pescosa ed ampiamente sfruttata da questo punto di vista dalla nazioni rivierasche ma non solo.
In particolare è ancora una volta il Mar Cinese Meridionale ad essere al centro dell’attenzione. Si tratta di una zona particolarmente ricca di vita marina per via di alcune fortunate combinazioni di fattori ambientali e geografici: contribuiscono a questa abbondanza l’ampio deflusso di acque cariche di sostanze nutritive provenienti da terra e le risalite di acque profonde in alcune zone del mare. Secondo gli studi del Dipartimento filippino dell’Ambiente e delle Risorse Naturali, il Mar Cinese Meridionale detiene un terzo della biodiversità marina del mondo intero e fornisce circa il dieci per cento del pescato mondiale. Secondo alcune stime queste riserve di vita marina stanno soffrendo: il 40% degli stock è crollato o ipersfruttato mentre il 70% delle barriere coralline è fortemente impoverito. Pesca eccessiva e pratiche distruttive, come l’uso di dinamite e cianuro, contribuiscono principalmente a questo esaurimento.
Nonostante le riserve di idrocarburi meritino attenzione nel quadro complessivo degli equilibri strategici dell’area, anche le controversie sui diritti di pesca, negli ultimi anni, sono emerse come un fattore ulteriore di conflitto. In effetti, proprio l’esaurimento delle risorse ittiche ha portato a scontri in passato, e i divieti di pesca annuali emessi dalla Cina, dietro il paravento della protezione ambientale, sono visti semplicemente come un altro modo per rivendicare la sovranità su quelle acque contese. Il Mar Cinese Meridionale è infatti solcato da decine di migliaia di pescherecci: la sola Cina ne ha inviati 23mila nell’agosto del 2012 dopo che il divieto annuale era stato revocato, e Pechino, per sopperire all’esaurimento di questa risorsa, ha iniziato a sguinzagliare la sua flotta da pesca nei mari più lontani, spingendosi, ad esempio, sino all’arcipelago della Galapagos.
La pesca pertanto potrebbe diventare un casus belli di un possibile conflitto futuro, poiché è aumentata la concorrenza tra i Paesi a maggiore vocazione come il Vietnam, le Filippine e, ovviamente la Cina. Questa concorrenza ha aumentato la frequenza e l’intensità degli scontri tra pescherecci negli ultimi anni tanto che, proprio nel Mar Cinese Meridionale, si registra la presenza di pescherecci armati nelle flotte vietnamite e cinesi, oltre a sempre maggiori “pattugliamenti” di cutter della Guardia Costiera di Pechino che hanno il sapore dell’intimidazione.
Il pesce rappresenta il 22% dell’assunzione di proteine nella regione, rispetto a una media globale del 16%, e in particolare gran parte delle popolazioni costiere di Cina, Vietnam e Filippine dipendono esclusivamente dalla pesca per il proprio sostentamento. La pesca, quindi, si può considerare a tutti gli effetti come un’attività strategica e viene giustamente percepita come parte dell’attività espansionistica della Cina. Le flotte da pesca, infatti, sono utilizzate per scopi geopolitici come parte della tattica “pesca, proteggi, contesti e occupa” della Cina per affermare la sua sovranità sul Mar Cinese Meridionale al pari dell’attività di ricerca offshore di idrocarburi effettuata con navi per prospezioni geologiche.
Per far capire meglio la portata della questione è bene ricordare che dati del 2015 stimavano che oltre la metà dei pescherecci nel mondo operasse in quelle acque.

Minerali preziosi
Una risorsa vitale per l’economia globale ma che ancora andrebbe stimata nelle acque che circondano gli stretti presi in esame, soprattutto il Mar Cinese Meridionale, è quella delle Terre Rare, elementi chimici su cui si basano tecnologie moderne diventate essenziali e la cui gestione, dalla cavazione alla trasformazione, è sostanzialmente detenuta dalla Cina facendone così un vero e proprio monopolio. Recentemente, nel 2018, una prospezione geologica offshore giapponese ha individuato riserve di questi elementi sui fondali oceanici della Zona di Esclusività Economica nipponica a sudest dell’arcipelago, turbando la relativa tranquillità della Cina per quanto riguarda la commercializzazione di questi elementi che vengono usati da Pechino anche come strumento di pressione diplomatica alla bisogna.
Secondo l’articolo scientifico pubblicato su Nature, ci sarebbe abbastanza ittrio per soddisfare la domanda globale per 780 anni, disprosio per 730, europio per 620 e terbio per 420.
Il reservoir si trova esattamente al largo dell’isola Minamitori, a circa 1850 chilometri a sudest di Tokyo. Essendo contenuti nei “fanghi” del fondale, ovvero nei sedimenti più o meno superficiali, risulterebbe interessante cercarli nei medesimi depositi localizzati altrove nei mari del Pacifico Occidentale e dell’Oceano Indiano, e non è affatto da escludere la possibilità che le campagne di ricerca oceanografica effettuate da vascelli cinesi con l’ausilio di Uuv (Unmanned Underwater Vehicle) in quelle acque, oltre ad affermare, per alcuni settori già noti, la propria sovranità, siano finalizzate anche alla ricerca di queste fondamentali risorse minerarie.

Il “dilemma della Malacca” cinese
Choke points e mari che, per i motivi fin qui elencati, sono fondamentali per l’economia globale e lo sono ancora di più per la Cina. Poiché il commercio marittimo è diventato un elemento sempre più importante della moderna economia cinese, a Pechino vengono sollevate preoccupazioni sulla sicurezza delle rotte marittime vitali che passano proprio per gli stretti presi in esame in questa trattazione.
Il primo a sottolineare la pericolosità di un’economia strettamente dipendente dagli accessi ai mari per i quali passano la maggior parte delle risorse energetiche e non di cui la Cina abbisogna per la propria prosperità è stato Hu Jintao. A lui si deve la postulazione del “Malacca Dilemma” alla fine del 2003 che descrive il problema delle rotte marittime cruciali per il commercio cinese ed in particolare quella passante per lo Stretto di Malacca, che può essere facilmente soggetto all’attività di interdizione da parte di un altro Stato.
La tentazione di risolvere unilateralmente la questione e scongiurare la possibilità che una potenza globale come gli Stati Uniti, coadiuvata dai suoi alleati, possa chiudere gli stretti attraverso meccanismi di sea denial è stata il motore che ha portato la Cina a modernizzare le sue forze navali e ingrandirle numericamente. Tuttavia, resta nell’interesse di Pechino lavorare sia con gli stati litoranei che con altre grandi potenze per garantire una maggiore sicurezza nella regione della Malacca, anche cercando approcci paralleli alla forza militare ma alquanto controversi, come il proposto “taglio” della Penisola di Kra per avere un canale artificiale che, oltre ad accorciare la rotta passante per lo Stretto della Malacca, sia sotto controllo cinese.
Se dal punto di vista strettamente energetico la massiccia campagna esplorativa in atto nelle acque del Mar Cinese Meridionale, sovvenzionata con investimenti pari a 20 miliardi di dollari da parte della China National Offshore Oil Corporation, potrebbe rassicurare il Politburo che così dipenderebbe meno dagli idrocarburi provenienti dal Golfo Persico e dal Medio Oriente, il “Malacca Dilemma” resta, nel suo senso più generale, a turbare i sonni della direzione del Pcc.
Pechino sa, infatti, che la U.S. Navy, in caso di necessità, potrebbe interrompere le linee di navigazione tra Pacifico e Indiano bloccandone gli stretti, e abbiamo visto che per quei choke points passa un volume di traffico commerciale molto importante e la pressoché totalità di quello cinese. Gli Stati Uniti, quindi, potrebbero facilmente – anche grazie ad alleati come il Giappone, l’Australia, le Filippine e la Corea del Sud – strangolare l’economia della Cina con un blocco navale avendo non solamente una flotta in grado di esprimere al meglio il concetto di proiezione di forza, ma basi oltremare dotate di cantieri e maestranze che garantirebbero il necessario supporto logistico e manutentivo per un’operazione di questo tipo, che si protrarrebbe a lungo nel tempo.
Malacca, Sonda e Lombok, per tutti questi motivi, rappresentano tre stretti che non hanno solo valore dal punto di vista commerciale, ma hanno una profonda importanza strategica in un mondo che sta passando dalla condizione di unipolarità nata dopo la dissoluzione dell’Urss e del sistema sovietico a quella di multipolarità risultante dalla nascita di nuove potenze che ambiscono ad avere influenza globale non solo dal punto di vista economico.

Paolo Mauri

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