Addio a un uomo vero: specie in via d’estinzione
Scommettiamo che Carlo Vichi, scomparso in questi giorni, è stato un imprenditore più unico che raro? Presumo che molti lettori non ne conoscano il nome e la storia, perciò ve ne parlerò oggi.
Della sua morte mi ha informato ieri un caro amico di Milano, Renzo Canciani, che lo conobbe molto bene: «È morto Carlo Vichi, a novantotto anni. Personaggio controverso, maremmano testardo, capace di andare contro tutti se riteneva di avere ragione. Solo quindici/venti anni fa aveva il 20/25% del mercato dei televisori italiano. Poi il sindacato in primis, la FIOM e la globalizzazione hanno ucciso la sua azienda, la Mivar. Al di là del ruolo che interpretava dichiarandosi non solo fascista ma nazista, è stato un uomo del fare e nonostante la ricchezza accumulata viveva in maniera modesta e sobria. La moglie ha lavorato fino a pochi anni fa sulla catena a inscatolare i televisori». Decine di anni fa mi concesse una intervista, per me indimenticabile. Ma prima di tutto vorrei ricordare il giudizio colorito che di lui diede un famoso giornalista: «Per rimettere a posto l’Italia, bisognerebbe avere il coraggio di nominare capo del governo Carlo Vichi. Perché ha le palle più grandi della cupola di San Pietro!». Unico, ho scritto e confermo. Ha dedicato ogni minuto della sua vita al lavoro, affiancato fino all’ultimo da una moglie esemplare che sposò quando lei aveva diciotto anni e lui ventuno («in due non hanno quarant’anni», commentò il prete). Detestava i giornalisti e li provocava esaltando Benito Mussolini e Adolf Hitler. Non sopportava i sindacalisti: arrivò ad avere mille dipendenti, ma diceva che «l’azienda è come l’esercito, uno solo – io – deve comandare».