domenica 30 Giugno 2024

Come muoversi nel campo minato

Forse mai come oggi è necessario ricorrere a tutti i criteri altrimenti ci si smarrisce nel deserto

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Per quanto abbia stringato il più possibile, l’argomento è così complesso che non può essere trattato senza toccarne tutti gli aspetti. Quindi l’intervento è lungo. Eventualmente leggetelo a rate.

“Voi sapete cosa mi state mostrando? Le immagini di un paese multirazziale: io voglio che la Francia non diventi mai così”. In tal modo Jean-Marie Le Pen rispondeva trentaquattro anni fa ad um giornalista televisivo che all’Ora della verità gli aveva messo sotto gli occhi un video dell’Intifada nell’intento di alienargli, a seconda della sua risposta, la metà del proprio elettorato.
Direi che è un buon punto d’osservazione, ma non basta se poi si sfugge la questione.
Sintesi-Analisi-Sintesi. Altrimenti ci smarriamo tra sensazionalismi epidermici ed elucubrazioni salottiere.

  1. COSA PENSARE DELL’ASSALTO DI HAMAS

L’assalto di sorpresa non regge. Non solo perché i mezzi dei servizi israeliani sono tra i più sofisticati al mondo, ma anche perché Gaza è disseminata di informatori infiltrati: dodici anni fa si valutavano in non meno di tremila tra le organizzazioni armate palestinesi. E infine gli israeliani erano stati apertamente avvertiti dagli egiziani. Pertanto hanno lasciato fare gli attentatori.
Perché facevano comodo per stabilizzare il governo? O perché a Tel Aviv sono combattuti sulle relazioni audaci con Iran e Arabia Saudita?
Se si considera che la strage principale è stata commessa in un rave party pieno zeppo di stranieri, e che quindi questo coinvolge le opinioni pubbliche di altre nazioni, in maggioranza Usa e Germania, è difficile non pensare a un cinico utilizzo preventivato dell’attacco altrui che avrebbe garantito un ampio sostegno alle ritorsioni.
La domanda più corretta è perché Hamas si sia prestato a un’azione che avrebbe prodotto sanguinose reazioni a catena sulla propria gente. Spera(va) in un coinvolgimento militare altrui o ha solo voluto alzare la tensione perché, se la pacificazione dell’area si fosse fatta anche solo parzialmente avrebbe perduto appoggi e soprattutto fondi?
Ma, soprattutto, dobbiamo chiederci quali sono i piani di Tel Aviv per capitalizzare la strage del 7 ottobre.
Facciamo un salto indietro, cercando di non soffermarci sugli orrori di questi giorni estrapolandoli da un sanguinoso contesto infinito.

  1. IL QUADRO DELLA CONTESA ISRAELO-PALESTINESE

La causa palestinese nasce come quella di un popolo angariato la cui identità è negata e calpestata.
Ai tempi dell’Impero Britannico c’era una differenza giuridica tra gli ebrei (quasi tutti immigrati) e i palestinesi, indigeni, che, per comprendersi, si concretizzava nel permesso ai primi di portare armi e nella condanna che si poteva estendere fino alla pena capitale per i secondi anche se trovati in possesso di una sola pallottola.
Con la costituzione dello Stato d’Israele sono rimasti in vigore diversi codici penali che sono applicabili a seconda di come decide il giudice. Non si può parlare tecnicamente di leggi razziali, ma sostanzialmente è così.
La realizzazione dello Stato d’Israele nel 1948 si fece sul terrore e sul terrorismo. Attentati contro gli inglesi e stragi di civili arabi, come a Deir-Yassin dove un intero villaggio fu sterminato, con donne, vecchi e bambini schiacciati sotto le ruote dei camion.
Non è mai cessata la discriminazione dei palestinesi non datisi alla fuga dopo l’affermazione di un esercito sostenuto dagli americani e dai russi (senza il sostegno del ponte aereo stalinista dalla Cecoslovacchia appena inglobata da Mosca con un colpo di Stato, la conquista non sarebbe riuscita).
Stillicidio quotidiano a parte, dobbiamo pensare alle stragi commesse una dozzina di anni fa, con tanti bambini eliminati in risposta a dei razzi-fetecchia di Hamas e l’uso ripetuto di fosforo bianco sui civili. Non enumeriamo le tante stragi commesse direttamente o lasciate commettere dai servitori, come a Sabra e Chatila. Questo per dire che il “non ci sono giustificazioni” con cui si straparla a pappagallo da quattro giorni, non sta in piedi.
Il che non significa neppure che certe immagini e certi comportamenti non ci raccapriccino.
Però queste le vediamo ed altre no e purtroppo un simile comportamento bestiale non è solo reciproco (però con un enorme divario di forze) ma lo ritroviamo ovunque e sempre e non ne è esente alcuno. Per noi è facile avere le mani e la coscienza pulita perché non siamo in trincea.
Il che non giustifica le porcate e le vigliaccate: lo spirito di Cavalleria che ci dovrebbe contraddistinguere non le può tollerare. Con questo voglio allora rimarcare una nostra superiore civiltà? Sì, ma anche qui bisogna fare la tara. Basti pensare a come i francesi bruciavano vivi gli algerini negli altiforni o a quanto è accaduto e continua ad avvenire in modo strisciante nei Balcani, per non schematizzare troppo. È troppo facile fare le vergini cuccia, come lo è il giustificazionismo (ha cominciato prima lui e quindi…). Si può, o meglio si deve, essere coinvolti nelle cause che ci coinvolgono senza aver paura di assumerle per non sentirci in imbarazzo, rigettandone al contempo le vigliaccherie bestiali.

Non si deve però mandare il cervello all’ammasso con generalizzazioni binarie perché la coesione degli israeliani e dei palestinesi è più teorica che reale, probabilmente si manifesta solo nella sfida alla minaccia reciproca, ma non c’è nei comportamenti e spesso nei sentimenti. Gli israeliani oggi sono spaccati tra loro in maniera radicale e abbiamo avuto colà anche qualcosa di impensabile qui, come il processo al cosiddetto criminale nazista Damien Huk, assolto in Israele e condannato in Occidente.
Ma c’è di più: non soltanto vi è una storica divisione, un po’ razzista, tra askenazi e sefarditi, ma sono intervenute divergenze escatologiche nella stessa concezione israelita che Pierre-Antoine Plaquevent nel suo libro Soros e la società aperta, pubblicato da Passaggio al Bosco, ha messo in luce almeno in parte. Tutto questo, più le differenze di ceto sociale, si riflettono anche nelle posizioni riguardo Putin, che per ora resta il grande amico di Tel Aviv con non poco malcontento interno e con le fazioni pro Kiev e pro Mosca che si affrontano fisicamente.
Di sicuro, poi, dopo settantacinque anni di negazione dello Stato di Palestina e di occupazione non solo delle terre concesse dall’Onu ma anche dei Territori Occupati cinquantasei anni fa, il tutto si è complicato e intrecciato, come è avvenuto ovunque ci siano situazioni analoghe (Ulster, Kosovo, Nagorno-Karabakh ecc). L’assoluto si relativizza, ma se relativizzando si pretende di negarlo si commette non solo uno sbaglio ma un delitto. E l’assoluto parla di un delitto di stupro di terre e di una politica di sostituzione etnica ai danni dei nativi di Palestina.
Poi il relativo, la storicizzazione, parla di generazioni che hanno convissuto nella reciproca ostilità a cui non si vede proprio come si potrà sopperire. Le solite vergini cuccia invocano la necessità che si mettano d’accordo, però le due parti non lo fanno e ciascuna accusa l’altra della colpa. Così si va avanti all’infinito. Le responsabilità non possono però essere definite uguali perché ne ha sempre di più chi ha più potere e pertanto gli israeliani di gran lunga sono quelli che maggiormente impediscono una svolta.

La divisione dei palestinesi è ancora più profonda e le manovre dei servizi israeliani, che sono intervenuti all’origine non solo di Hamas ma anche delle organizzazioni terroristiche precedenti anti-Arafat, non sono estranee a questo gioco di divisione e destabilizzazione mediante la tensione. Ma è un gioco che non riesce sempre, perché se Hamas almeno fino all’altro giorno sembrava davvero il pupazzo di Tel Aviv pronto a fare baccano per scatenare le repressioni utili al governo, le ripetute azioni in Libano degli israeliani sono risultate un boomerang perché hanno dato vita agli Hezbollah che, non dimentichiamolo, hanno poi sconfitto l’esercito ebraico nel 2006, ripetendo su grande scala il successo siriano sul Golan del 1973 e dimostrando che la mitizzata infallibilità di Tsaal non era poi così certa. D’altronde già nel 1982, quando con l’operazione “Pace in Galilea” gli israeliani non solo fallirono gli obiettivi strategici ma diedero il là al processo da cui sarebbe emersa la forza radicata degli Hezbollah, i loro leaders militari accusarono la scarsa motivazione delle giovani leve, lamentandosi, già allora, della caduta verticale nel ricambio generazionale.
Ma intanto tutti i paesi e i potentati arabi, tranne forse gli iracheni, pur impugnando a chiacchiere la causa palestinese, la tradirono regolarmente. I rapporti sostanziali tra arabi ed israeliani – e tra turchi e israeliani – furono cooperativi pressoché sempre, il tutto mentre la propaganda per le masse diceva l’opposto. E mi piacerebbe che chi pretende di opporsi in qualche modo all’uniformità del sistema iniziasse a capire che la propaganda è falsa e spesso stravolge la realtà.

  1. LA PROPAGANDA NON CORRISPONDE DEL TUTTO ALLA REALTÀ DEI POSIZIONAMENTI

La propaganda non rispecchia che in minima parte la realtà. Ma è dedicata alle opinioni pubbliche che, in Occidente, debbono essere pro-israeliane e nel Meridione pro-palestinesi, per motivi di comodo. Ma si tratta di propaganda perché poi, nel malaffare che accomuna tutti i sistemi gangsteristici mondiali da ottant’anni in qua, la sostanza è diversa.
Partiamo dall’Occidente. Non è per nulla che l’Unione Europea viene sempre accusata da Israele, e fu accusata da Farrage come cavallo di battaglia del Brexit, e poi dal Cremlino, di antisemitismo per il sostegno diplomatico e finanziario ai palestinesi cosiddetti moderati. È di ieri il braccio di ferro (non riuscito con chiara presa di posizione di Borrell) per bloccare i fondi europei alla Palestina. Nel vertice tra Biden, Macron, Schulz, Meloni e Sunak, la condanna ad Hamas è stata accompagnata dalla rivendicazione del diritto palestinese ad avere una patria. Né più né meno di quello che affermava in contemporanea Putin al leader iracheno, messo su da americani e iraniani dopo l’assassinio di Saddam.
Persino con gli Usa la questione è più complessa di come la s’immagini. Non si dimentichi che nel 1967 l’aviazione israeliana attaccò la nave-spia americana Liberty uccidendo 34 persone e ferendone 172. Meno nota è la guerra tra Cia e Mossad a cavallo tra gli anni ottanta e novanta per il controllo informatico globale, con diversi agenti sacrificati reciprocamente. L’alleanza Usa-Israele rimane un must, ma non è andata sempre così: non con Kennedy, Carter o Bush senior. Con Londra il rapporto è a dir poco reciprocamente ambiguo.
Intanto i rapporti tra Tel Aviv e Ankara, le attuali intese con Ryad, le relazioni con Amman e Il Cairo, le ambigue frequentazioni con Teheran, vanno molto al di là e spesso in controtendenza rispetto alla facciata. Non si dimentichi l’intesa di fondo irano-israeliana contro l’Iraq, con tanto di armamenti agli ayatollah e con il petrolio inviato sistematicamente da loro a Tel Aviv mediante una triangolazione con l’Olanda.
Certo che, quando si reagisce bombardando i civili e si pretende di fare pulizia etnica, sia pure se immaginata come contropulizia, le cose si complicano. Così non solo Teheran che si è vista obbligata da Hamas a prendere posizione in suo favore, ma le stesse capitali più vicine, ovvero Ankara e Il Cairo che pure aveva messo Israele in preallarme, si sono sentite in dovere di esibire la bandiera palestinese. C’è la possibilità che Israele si stia facendo mettere in trappola dalla strategia della tensione che va bene negli opposti estremismi ma se, poi, le tensioni vengono fatte esplodere per fare un salto in avanti nella ristrutturazione globale, cambia tutto.
Israele può essere stata scavalcata in alto e può esserci un cointeresse oligarchico, anche di minoranze interne, ad accelerare un processo tettonico mondiale? Se fosse così, se la strategia della tensione venisse portata al culmine, potrebbe persino fare la fine della nostra Prima Repubblica.

  1. COME CAMBIERÀ LA GEOGRAFIA DEL MEDIO ORIENTE?

Intanto il governo israeliano ha detto chiaramente che l’intera geografia mediorientale verrà modificata e che sarà una guerra lunga. È probabile, ma quanto lunga e coinvolgendo chi?
Solitamente mi pronuncio, tanto che i detrattori sostengono che faccio l’indovino. Istinto ed intuito mi aiutano, ma nelle mie previsioni metto assieme i dati, gli elementi, la decodificazione dei linguaggi che ho appreso da tempo, la conoscenza della materia. Da quando ho iniziato sistematicamente, trentanove anni fa, pressoché tutto quello che ho previsto si è verificato anche nei tempi immaginati, a iniziare dalla caduta del Muro di Berlino. Ma su quell’area non mi pronuncio perché il cinismo è massimo, l’ipocrisia e il disprezzo delle masse sono al più alto grado e i codici del linguaggio non tendono, come in Occidente e nel mondo avanzato, Cina e India comprese, a trasmettere messaggi a più livelli: si accontentano le masse e si agisce altrimenti senza comunicare neppure tra iniziati. O, se lo si fa, si usano codici imperscrutabili.
Quindi cos’accadrà? Tel Aviv cercherà di realizzare la Grande Israele, incurante delle ripercussioni, trovandosi così a combattere con Iran e Turchia nello stesso tempo? Od opererà affinché le diverse organizzazioni islamiche si scannino tra di loro? O sta puntando sul tavolo della redistribuzione delle quote nel sistema che si resetta e gioca d’anticipo? O conta soltanto sulla carta bianca per eliminare decine di migliaia di abitanti di Gaza e ritardare il sorpasso etnico da parte degli arabo-israeliani? Al momento non saprei dire se non tirando a indovinare.

  1. QUALI EFFETTI DA NOI?

Chiunque domini la partita in Medio Oriente, la causa palestinese è strumentalizzata e non ha nel breve possibilità di successo.
Il dominio delle organizzazioni islamiche, o islamiste, ha introdotto una logica internazionalista e fondamentalista che la soffoca anche quando la impugna.
Le immagini per noi raccapriccianti dei linciaggi al grido Alla Akbar parlano invece a tutte le banlieues europee perché sono molle emotive per le rivincite etnosociali. Gli attentati verosimilmente si moltiplicheranno e rientreranno perfettamente nella guerra all’Europa. Un po’ spontaneamente, un po’ per impulsi stranieri (turchi, wahhabiti, iraniani), un po’ con le manovre delle guerre oblique (inglesi, americani, russi, israeliani), un po’ con i giochi machiavellici delle intelligences interne.
Il 7 ottobre verosimilmente innescherà un’azione di terrorismo internazionalista e fondamentalista contro di noi mentre danneggerà pesantemente la causa palestinese.

  1. “IO SERVO, TU SERVI, NOI SERVIAMO E GUAI SE IL PRIMO DEI PADRONI È SOLTANTO IL PRIMO DEI SERVI!”

Nella post-democrazia occidentale, con la concentrazione di poteri e mezzi di comunicazione nelle mani di ristrette comunità, il servilismo è di prammatica.
Nello specifico parliamo solo nei confronti di Israele? Non proprio, ma ovviamente è predominante. Purtroppo in Italia, dove a servilismo nei confronti di chicchessia non temiamo rivali, questo non è solo di facciata come nella maggior parte dell’Unione Europea e perfino in Usa e in Inghilterra. Da noi invece si scatta sempre battendo i tacchi!
Siamo alla follia totale con Bruno Vespa che se ne esce che non venivano assassinati e deportati civili dal tempo del nazismo, mentre accade in tutti i continenti ed è un fatto quotidiano in Ucraìna ad opera dei russi!
In questo mettersi proni, la destra è fantastica.
Qui si salvano ancora gli eredi della sinistra democristiana e della destra socialista, il resto è da buttare via. Anche tra quelli che non sono filo-israeliani tra i quali predomina uno spartachismo in salsa Fracchia che si prosterna nei riguardi di quanto considera barbaro e castigamatti. La stessa identica logica degli zeccobruni: non si condivide una causa ma un atteggiamento iconoclasta e provocatorio. Un alter-servilismo che ha la sola caratteristica di essere minoritario e di soddisfare la libido di emarginazione in cui languire.
Intanto procede a grandi falcate tutta la ristrutturazione psicosociale che è stata delineata da una trentina d’anni con lo spauracchio dello scontro di civiltà, sapientemente alimentato da immigrazione, terrorismo e manovre di destabiliazzazione.
Così si uccide sul nascere qualsiasi possibilità di rigenerazione, incanalandola dove si era programmato.
In questo fine settimana a Roma s’incontrano i giovani della Lega, del Rassemblement National di Marine Le Pen (Francia), dell’ungherese Fidesz, della tedesca AfD e dei polacchi di Ruch Narodowy insieme agli israeliani del Likud.
Hanno in comune tre elementi cardine: sono sionisti, filorussi e antieuropei esattamente come si è voluti formattarli da tempo.
Non è obbligatorio che questi tre elementi ideologici vadano assieme, ma la loro miscela è il peggio del peggio e rappresenta tutto quello a cui, intorno a noi, dobbiamo opporci per non capitolare e per non gettare la spugna.

  1. LO SCONTRO IN CUI ABBIAMO UN RUOLO

L’esempio tangibile viene da Eric Zemmour che in Francia ha rappresentato esattamente quello che prevedevo fin dal 2021 ed è riuscito a incanalare i residui di quella che un tempo si definì Destra Rivoluzionaria, in un letamaio “sovranista”, alimentando le tensioni di cui sopra, eccitando le banlieues e contribuendo a sabotare la politica francese.
Ieri ha affermato: “Quello che accade oggi in Israele sovrasta la sorte degli ebrei, degli israeliani e perfino dei francesi: la lotta di Israele è quella della nostra civiltà”.
Ottima replica del GUD, l’organizzazione universitaria francese storica: “Strano: Zemmour non ha affato tenuto lo stesso discorso quando l’Ucraìna – paese europeo e cristiano – è stata bombardata ed invasa. Dissonanza cognitiva?”
In questo scambio di battute è contenuto tutto. Intendo tutto quello che ci coinvolge direttamente e in cui abbiamo un ruolo da svolgere.

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