sabato 27 Luglio 2024

Delle tre metamorfosi

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Indispensabili perché un’area non muoia di noia nell’agonia

 

L’improvvisa svolta politica di CasaPound ha acceso gli animi e diviso i giudizi.
Come ho scritto subito a caldo, non intervengo nel dibattito interno a CPI, bensì nel clima di riflessione e di revisione che accomuna quasi per intero un ambiente.
Scrivevo ieri quali sono a mio giudizio gli elementi cardine per un salutare cambiamento di registro. Noto che sono  stati sostanzialmente condivisi, però una cosa è teorizzare un cambiamento, un’altra farlo proprio: tra le due sponde c’è un mare.
Per attraversarlo sono necessarie alcune metamorfosi che elenco in ordine di priorità temporale.

Prima metamorfosi: la (ri)acquisizione di un’identità comune.
Da tempo quasi tutte le realtà “politiche” della destra radicale vivono in un ghetto e competono tra di loro senza ricordare chi sono e di chi dovrebbero essere eredi.
Sette anni fa partì l’iniziativa di Radicato Stile Italico che intendeva offrire a tutti un riconoscimento comune, almeno in forma di capi d’abbigliamento. Non decollò. Non per via dei costi dovuti alla scelta di produrre rigorosamente italiano, ma perché quasi nessuno anelava ad una forma di cittadinanza impersonale – stile anni settanta – tramite la quale tu puoi essere isolato o appartenere a una tribu, ma ti riconosci, comunque, nell’identità superiore del popolo differenziato.
L’area si mostrò così refrattaria da stupire anche me che non avevo colto la misura della richiesta di un genere di appartenenza settoriale e tribale, figlia del tempo della dis-sociazione.
Le comunità come luoghi dove articolare una socialità riparata erano l’ultima frontiera d’inizio millennio. Con questa logica l’avversario naturale diventava automaticamente chiunque altro potesse competere nelle praterie della medesima riserva. Logiche quindi le ostilità e le assenze di comunicazione con, puntuali, le competizioni individualistiche sul medesimo terreno.
S’iniziò a guardare agli altri con sospetto, diffidenza e disprezzo, stabilendo che la mia tribu – quale che essa fosse – rappresentasse la somma di ogni cosa mentre le altre dovevano forzatamente essere storte, nemiche, avverse.
Una follia non solo politica ma umana, in quanto non c’è nessuna ragione al mondo perché coloro che vengono a me siano per forza i migliori e chiunque non lo faccia sia peggiore. Ingigantendo le pagliuzze altrui (spesso invero già gigantesche di loro) ci si è cullati in una presunta superiorità acquisita che si è confortata paragonando regolarmente i propri migliori con i peggiori degli altri.
Un bagno di umiltà è necessario da parte di tutti, per (ri)trovare l’empatia necessaria alla ricostruzione del mosaico interiore e di quello generale. Non si tratta di “unità dell’area” che non significa nulla e che non ha alcun precedente storico, ma di recupero dell’identità cosciente.

Seconda metamorfosi: la (ri)scoperta della Weltanschauung e della storia.
Sempre alla nuova psicologia sociale è imputabile lo smarrimento ideologico (e stilistico, e formale, e formativo) che si è impadronito dell’area della destra radicale. Sospinti da un identitarismo tribale e ghettizzato, più o meno tutti (sia chi voleva sfuggire il ghetto che chi voleva celebrarlo) hanno contratto la sindrome omosessuale. Quella che consiste nel pretendere di essere diversi ma considerati come uguali. Anziché comportarsi con la superiorità morale e culturale e con l’ironia di un Paolo Poli, o con la sensibilità comunicativa di un Zeffirelli e di un Visconti, i neofascisti si sono divisi in “gay friendly” (quelli che passano il fossato ma chiedono indulgenza per i diversi) e celebratori di chiassosi “gay pride”. Ma tanto gli uni quanto gli altri si sono mossi sempre e comunque nel desiderio irrazionale di essere accettati e, pride a parte, hanno iniziato a dialogare con la cultura dominante mettendo da parte la propria.
Per queste ragioni si è finiti con l’esprimere un’ideologia economicistica e bottegaia che – oltre ad attestare la profonda ignoranza e l’assoluta incompetenza in materia da parte di chi crede di conoscere qualcosa – è di per sé la negazione dei fondamenti valoriali e delle scelte storiche da cui si pretenderebbe di provenire. Questa china rotolante ha finito col trascinare nella palude dell’anti-Europa. Il post/neofascismo si è praticamente trovato a realizzare l’inversione del fascismo: è invertito.
Like a rolling stone giù per la china. Ragion per cui, se si vuol riprendere ad ascendere, servono al più presto concentrazione, riscoperta e risveglio per ripartire dai fondamentali e smetterla di essere passivi in politica in quanto mossi da ideologie aliene, altrui e nemiche.

Terza metamorfosi: l’acquisizione dei criteri politici.
Che non ci sono proprio se non a tratti, a pezzi e bocconi, disordinatamente, senza una mentalità compiuta. Zero lucidità metodologica, nessuna consapevolezza del ruolo di una minoranza rivoluzionaria, nemmeno l’ombra di un intento strategico neppur lontanissimo. Tutto questo – che non è nuovo – si somma a una visione generale dell’economia, della finanza, dei complotti, che è ormai datata tanto da corrispondere solo in parte ai dogmi acquisiti. Dogmi che hanno a loro volta il torto di essere gli accomodamenti cretini di visioni metafisiche e strutturali del passato e di riproporne una caricatura peraltro sbiadita. Carente, quando non del tutto assente, l’attualizzazione delle proposte nell’epoca satellitare e robotica.
A tutto questo si deve rapidamente metter mano se si vuol tornare ad essere avanguardie o, limitando le prospettive, a essere almeno dei soggetti politici. Un qualcosa talmente antico da essere sconosciuto ai più. I quali, nel selfieland compreso tra gli smartphones e i marciapiede, credono di fare o di aver fatto politica.

Queste metamorfosi sono necessarie e devono essere rapide. È indispensabile che si producano tutte e tre e nell’ordine sopra indicato. Se si saltasse una sola delle fasi elencate tanto varrebbe continuare a comportarsi come si è fatto fino ad oggi, perché cambiare sarebbe assolutamente inutile.

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