Carlos Castaño sparito al momento giusto per il presidente Uribe Mostro scomodo Sacrificato agli Usa(?) nel difficile processo di legalizzazione dell’esercito paramilitare, di cui Castaño era il capo storico.
Morto impugnando il mitra dopo essere caduto in un’imboscata tesagli da una fazione paramilitare dissidente. Strangolato da un luogotenente. Catturato, torturato e, alla fine, fucilato alla schiena come un traditore. Oppure, nascosto sano e salvo, insieme con la giovane moglie Kenia e i figli, in una delle immense fattorie ottenute come bottino di guerra. O superprotetto in qualche città statunitense e impegnato a guadagnarsi perdono, libertà e una nuova vita, denunciando i suoi soci narcos delle Autodefensas unidas de Colombia e svelando laboratori, rotte e organigramma del traffico di droga. Dalla sera del 16 aprile scorso, quando scoppiò un misterioso conflitto a fuoco in un villaggio tra San Pedro e Arboletes, del dipartimento caraibico di Cordoba, diventato da una decina d’anni una roccaforte paramilitare, circolano le congetture più disparate sulla sorte di Carlos Castaño, quarantenne fondatore e capo storico dell’esercito paramilitare più forte e organizzato del mondo. La sparizione di Castaño è avvenuta nel momento più difficile del processo di legalizzazione delle Auc. Il suo grande regista, il presidente Alvaro Uribe, non riesce infatti più a mediare tra i suoi grandi sponsor, e cioè i capi paramilitari, suoi amici e grandi elettori, e gli Usa intenzionati a rinchiudere questi ultimi nelle loro carceri per avere commerciato droga, e non certo per avere massacrato migliaia di contadini e sterminato l’opposizione politica e sociale in Colombia.
Dopo aver dovuto abbandonare un progetto di legge di «alternativa penale» che, garantendo ai para l’impunità totale, aveva scandalizzato non solo l’Onu e le organizzazioni umanitarie, ma perfino le pur timide istituzioni europee e parte della stessa oligarchia colombiana, Uribe è stato costretto a prospettare loro vari anni di carcere vero – e non i ridicoli arresti domiciliari – condito dall’incubo dell’estradizione negli Usa. E cioè della stessa misura che una quindicina di anni fa aveva scatenato il terrorismo di Escobar e soci del cartello di Medellín, all’insegna dello slogan «meglio una tomba in Colombia che una cella negli Stati Uniti».
La risposta dei quattordici capi delle Auc, riuniti nella settimana di Pasqua significativamente senza il loro leader, è stata durissima. «Nel nostro futuro non ci possono essere celle né a Bogotà e tanto meno a New York, ma solo una soluzione politica con precise garanzie giuridiche» ha detto Salvatore Mancuso, il comandante militare di origine salernitana, accusato di essere in affari con la N’drangheta calabrese. E’ stato proprio Mancuso a insinuare che lo scontro a fuoco del 16 aprile non sia stato altro che una montatura organizzata insieme con agenti statunitensi della Dea per permettere a Castaño di rifugiarsi negli Usa. Per rabbonire Washington, Mancuso è arrivato ad offrire l’eliminazione di cinquantamila ettari coltivati a coca, quasi la metà di quelli esistenti nel paese, ammettendo implicitamente che i paras, che controllano tutte le coste atlantiche e pacifiche da dove partono i carichi di droga, siano la maggiore organizzazione narcotrafficante della Colombia.
Intuendo di avere fatto il suo tempo, Castaño si era prodigato negli anni scorsi in vari show mediatici. Dimissioni clamorose e di poca durata si sono alternate con patetiche lettere aperte e schizofreniche interviste, nelle quali condiva rivendicazioni di omicidi e massacri con mea culpa. Dopo avere svolto per una decina d’anni il ruolo di carnefice, per conto del potere colombiano, delle forze armate e – in nome di un presunto «sviluppo economico globalizzato» – delle transnazionali esistenti nel paese, Castaño risultava scomodo come tutti i «mostri» creati in laboratorio e destinati, dopo l’uso, al cimitero o ad un carcere a vita. L’inutilità e la conseguente crisi, sua e del suo esercito irregolare, si deve paradossalmente all’adempimento puntuale del compito di terroristi statali, ma soprattutto alla paramilitarizzazione de