sabato 27 Luglio 2024

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Kosovo: come gli angloamericani costruirono un caso di “crimini contro l’umanità” per infilare un cuneo in Europa, minacciare la Russia e sostenere la mafia albanese

Zittito dalla dimostrazione della catastrofe anglo-americana in Iraq, il partito della guerra “umanitaria” dovrebbe essere chiamato a render conto della sua, in gran parte dimenticata, crociata nel Kosovo, il modello del “progresso della liberazione”, secondo Tony Blair. Proprio come l’Iraq vien fatto a pezzi dalle forze dell’impero, così è stato per la Jugoslavia, lo stato multietnico che, nel corso della guerra Fredda, rifiutò entrambi gli schieramenti.


Per preparare l’opinione pubblica ad una attacco illegale, non provocato, contro un paese europeo, furono dette da Clinton e Blair menzogne grosse come quelle di Bush e Blair. Come la campagna propagandistica dell’invasione dell’Iraq, la copertura mediatica nella primavera del 1999 fu una serie di giustificazioni fraudolente, a cominciare dalla dichiarazione del Segretario USA alla Difesa, William Cohen: “Ora ci risulta la mancanza di 100.000 [Albanesi] in età di leva…potrebbero essere stati uccisi”. David Scheffer, ambasciatore degli USA per i crimini di guerra in generale, dichiarò che almeno “225.000 uomini di etnia albanese, fra i 14 e i 59 anni” forse erano stati uccisi. Blair evocò l’Olocausto e lo “spettro della Seconda Guerra Mondiale”. La stampa britannica colse al volo gli spunti. “Via dal genocidio”, titolò il Daily Mail. “Echi dell’Olocausto”, scrissero in coro Sun e Mirror.


Nel giugno del 1999, con i bombardamenti in corso, squadre internazionali di polizia giudiziaria cominciarono a sottoporre il Kosovo a un’inchiesta minuziosa. L’americana FBI arrivò per indagare su quello, che fu chiamato “il più grande scenario di un crimine della storia dell’indagine giudiziaria dell’FBI”. Parecchie settimane dopo, non avendo trovato neppure una sola fossa comune, l’FBI se tornò a casa. Ritornò a casa anche la squadra di polizia giudiziaria spagnola, col suo capo che si lamentava con rabbia del fatto di essere diventato, insieme con i suoi colleghi, parte di “una piroetta semantica delle macchine propagandistiche di guerra, perché non abbiamo trovato una – dico una – fossa comune”.


Nel novembre 1999, il Wall Street Journal pubblicò i risultati della sua indagine, ponendo fine “all’ossessione delle fosse comuni”. Invece che “i grandi campi di sterminio, che alcuni investigatori erano stati indotti a aspettarsi…il modello è di uccisioni isolate [per lo più] in aree, dove è stato attivo l’Esercito di Liberazione del Kosovo (ELK)”. Il Journal concludeva che la NATO aveva aumentato le sue dichiarazioni sui campi di sterminio serbi, quando “si rese conto che una stampa stanca volgeva la propria attenzione alla storia opposta: i civili uccisi dalle bombe della NATO…La guerra in Kossovo è stata crudele, aspra, disumana; il genocidio non c’era stato”.


Un anno dopo, il Tribunale Internazionale per i crimini di Guerra, un’entità messa in piedi per intero dalla NATO, dichiarò che il conto finale dei cadaveri trovati nelle fosse comuni del Kosovo era di 2.788. In questo erano compresi i combattenti di entrambe le parti e i Serbi e i Rom, uccisi dall’Esercito albanese per la Liberazione del Kosovo. Come le immaginarie armi di distruzione di massa irakene, le cifre, usate dai governi britannico ed Usa e riportate dai giornalisti, erano invenzioni, così come lo erano i “campi di

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