sabato 27 Luglio 2024

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Per rilanciare il deterrente gli americani investiranno sulla flotta di guerra

La Marina ha bisogno di cambiare rotta, concentrandosi sulla deterrenza strategica, l’attività di sea denial e sea control e la proiezione di forza. Esordisce così la recente analisi dell’U.S. Naval Institute (Usni), il prestigioso istituto di ricerca statunitense che è intimamente legato agli ambienti della Marina statunitense.
Non è affatto la prima volta che, negli ambienti della Marina statunitense, si afferma la necessità di un cambio di passo per il Servizio Navale: lo scorso dicembre è stato pubblicato “Advantage at Sea; Prevailing with Integrated All-Domain Naval Power”, un documento firmato dal capo delle operazioni navali e dai comandanti del Corpo dei Marines e della Guardia Costiera che è il primo nel suo genere dal 2015 e stabilisce cosa si deve fare per essere pronti ad affrontare la Cina, non in un ipotetico scenario futuro, ma nella competizione quotidiana che si svolge ora sui mari. Quel importante documento, nella suo essere sintetico, ha però un difetto: non indica specificatamente come deve essere effettuato questo cambio di rotta stante l’attuale situazione finanziaria, del personale e dei mezzi a disposizione dell’U.S. Navy, rimanendo più un’analisi – molto ben fatta – dell’attuale livello della minaccia data dall’espansione cinese nel settore dell’Indopacifico.
L’analisi fatta dall’Usni, per certi versi, è impietosa. Partendo proprio da una dichiarazione del capo delle operazioni navali, l’ammiraglio Mike Gilday, che assumendo l’incarico ha affermato “metteremo in discussione i nostri assunti. Penseremo in modo diverso alla competizione in cui ci troviamo ora” si afferma che se ci si chiede se l’attuale postura dell’U.S. Navy sia adeguata per una competizione tra grandi potenze, basandosi su due criteri di giudizio, la risposta è no.
La Marina americana è più piccola numericamente di quella cinese, per non parlare delle flotte combinate di Russia e Cina, inoltre, secondo l’istituto, è armata meno efficacemente: quasi tutte le piattaforme cinesi trasportano missili antinave super/iper-sonici, mentre la Marina degli Stati Uniti fa ancora affidamento su missili antinave subsonici, cannoni da 5 pollici e siluri. Torna quindi, ancora una volta, il tema “ipersonico” a turbare i sonni degli analisti civili e militari statunitensi: d’altronde Washington è colpevolmente in ritardo nella progettazione di questi nuovi e rivoluzionari sistemi d’arma, nonostante, nelle decadi passate, fosse stata tra i primi a testarne modelli sperimentali, rimasti però, solo degli unicum.
La Marina Usa, quindi, deve assolutamente cambiare corso, stante l’assertività cinese, e focalizzarsi su quattro punti essenziali: la deterrenza strategica, il sea denial, il sea control e la capacità di proiezione di forza.

Per quanto riguarda il primo punto viene giustamente affermato che lo strumento più efficace di deterrenza strategica è dato dai sottomarini lanciamissili nucleari (che se a propulsione atomica prendono il nome di Ssbn o “boomer” in gergo). È proprio il motivo per cui la Corea del Nord – ma anche quella del Sud – sta alacremente lavorando sul suo arsenale missilistico di Slbm e sulla cantieristica navale per sfornare battelli di questo tipo.
Tornando agli Stati Uniti si afferma che la costruzione degli Ssbn di classe Columbia, stante il principio appena enunciato, deve rimanere la massima priorità del Dipartimento della Difesa. Ma il primo battello di classe Columbia non dovrebbe prendere il mare prima del 2031, e la storia delle costruzioni navali di questo tipo non è promettente: il primo esemplare del suo predecessore, la classe Ohio, “è stato consegnato alla Marina circa due anni e mezzo dopo rispetto alla tabella di marcia originale e ad un costo di circa 1,2 miliardi di dollari, il 50% in più rispetto alle stime”. Pertanto è necessario reindirizzare ulteriori fondi e manodopera per garantire che i Columbia vadano in mare in tempo per sostituire i vecchi Ohio, comunque un’operazione che non garantirebbe il rispetto – e nemmeno l’accelerazione – dei tempi di consegna stante le difficoltà riscontrate dai cantieri navali statunitensi, che sono oberati di lavoro essendo carenti di maestranze e soprattutto numericamente insufficienti a tenere ritmi di produzione elevati.
Per quanto riguarda il sea control la priorità della Marina dovrebbe essere ottenere nuove armi aeree, navali e sottomarine antiaeree, antinave e antisommergibili, nonché veicoli senza pilota autonomi avanzati (quindi con intelligenza artificiale) progettati per contrastare gli assetti nemici più moderni. Inoltre, l’U.S. Navy deve dare la priorità alle infrastrutture sottomarine essenziali per le attività di comando e controllo in tempo di guerra, come il sistema integrato di sorveglianza sottomarina (Integrated Undersea Surveillance System), che sfrutta anche la vecchia catena di ascolto Sosus, e i cavi di comunicazione posati sui fondali oceanici.
In merito al sea denial, poiché le forze russe e cinesi possiedono capacità avanzate A2/Ad (Anti Access / Area Denial), i sottomarini e gli aerei statunitensi devono essere preparati a penetrare nei loro mari e nello spazio aereo per infliggere danni pesanti a obiettivi terrestri, navali, aerei e sistemi informativi. Una capacità che dovrà sfruttare non solo gli assetti aerei di quinta e sesta generazione armati di missili da crociera, ma anche nuovi armamenti missilistici montati su navi di superficie e sottomarini.
La capacità di proiezione di forza richiede alla Marina di affrontare missioni di attacco in profondità contro robuste difese aeree e disturbi delle comunicazioni radio e satellitari. L’U.S. Navy deve quindi garantire che le armi da attacco non si basino su input di navigazione esterna e possiedano un sistema autonomo sufficiente per eseguire missioni senza richiedere l’intervento di un operatore.

Viene riconsiderato, stante queste premesse, anche il ruolo degli stormi imbarcati (Cvw – Carrier Vessel air Wing) e conseguentemente quello delle portaerei maggiori. Una potenziale guerra contro una grande potenza, viene affermato, non sarà una riedizione delle battaglie di portaerei della Seconda Guerra Mondiale proprio per via della minaccia missilistica. Pertanto gli stormi imbarcati, benché possano ancora condurre alcune missioni di attacco al suolo, saranno deputati principalmente alla difesa aerea delle navi di superficie e alla ricognizione marittima, oltre che colpire gli assetti similari avversari. Stante la proliferazione missilistica, la Marina deve dare la priorità alla prossima generazione di missili d’attacco a lungo raggio e ad alta velocità, quindi aggiornando i compiti dei Cvw. Le portaerei maggiori, pertanto, sembrano ancora essere cruciali per la strategia marittima statunitense.
Queste linee guida richiedono mezzi navali e risorse umane, che attualmente, però, non ci sono sia per una mera questione numerica sia per la postura strategica statunitense, che è ancora ferma a un controllo capillare ed equivalente di ogni settore del globo.
L’Usni, pertanto, afferma – forse per la prima volta in assoluto – che sia necessario “riconcentrare le forze” ritirandosi da quei settori ritenuti non essenziali per gli interessi strategici americani. Nella fattispecie si afferma che l’unica area a contare davvero è il Pacifico Occidentale – proprio per via della Cina – per questo la maggior parte della flotta statunitense dovrebbe trasferirsi sulla costa occidentale per supportare operazioni di combattimento di alto livello nel Pacifico senza attraversamenti transatlantici o via Canale di Panama. Ciò include che tutte le portaerei e le navi d’assalto anfibie, così come la maggior parte delle unità aeree di superficie e navali vengano spostate nel Pacifico delegando le missioni nell’aerea euroatlantica/mediorientale alle risorse dell’Eucom o del Centcom che utilizzerebbero velivoli dell’aeronautica americana o alleati. Viene detto che sebbene la minaccia russa nel Nord Atlantico rimanga, si tratti principalmente di una minaccia di tipo antisom che potrebbe essere affrontata aumentando cacciatorpediniere, velivoli specifici, e sottomarini anche degli alleati della Nato.
Anche la gestione del personale ed il suo addestramento vanno riviste. La Marina deve porre maggiore attenzione all’addestramento e alle strutture logistiche, il che significa più persone, fondi e infrastrutture. Le strutture di manutenzione richiedono un mix di manodopera qualificata in servizio permanente e tecnici in divisa che possano mantenere le disponibilità dei mezzi e le riparazioni nei tempi previsti. In parole povere si auspica di recuperare una “mentalità da tempo di guerra” che significa anche eliminare lo optimized fleet response plan, che, come è stato fatto notare, “ottimizza la caratteristica sbagliata… ‘Schierabile’, invece di ‘pronto per il combattimento’”

Infine dovrebbe essere dedicato molto più tempo all’addestramento in mare di navi e aeromobili, il che significa che è necessario rimuovere i limiti di carburante, munizioni e tempo in mare. Un obiettivo ambizioso stante le ben note difficoltà riscontrate – non solo dalla Marina – nel recuperare personale, ma soprattutto nel gestire i compiti di servizio, che hanno logorato oltremodo uomini e mezzi e che possono essere ovviati solo con una massiccia iniezione di fondi e un’imponente campagna di reclutamento, i cui effetti, però, si paleserebbero non prima di un lustro.
La mancanza di fondi e risorse è infatti un enorme ostacolo sulla strada di qualsiasi tipo di cambiamento che dovrebbe intraprendere l’U.S. Navy. Stanti i tre decenni di tagli al bilancio della Difesa, la Marina, per cambiare rotta, deve farlo con il budget che ha. Quindi occorrono decisioni drastiche e coraggiose, che prevedono di eliminare o ridurre alcuni settori che non contribuiscono ai ruoli combattenti veri e propri: i funzionari dell’area estera, le risorse umane, i funzionari degli affari pubblici ed il Judge Advocate Generals (Jag). Questi ruoli potrebbero essere coperti da personale con una “doppia funzione” ovvero combattente e specializzata in altri compiti.
Infine, la Marina, per ottimizzare il suo bilancio e reindirizzarlo verso i nuovi obiettivi, dovrebbe smantellare le piattaforme che consumano troppo tempo e denaro per la loro manutenzione o che non sono costruite per il combattimento di alto livello. A questo proposito lo studio dell’Usni individua gli Ssgn (sottomarini nucleari lanciamissili da crociera) classe Ohio, i vecchi incrociatori di classe Ticonderoga (vicini ai 35 anni di vita), le Lcs (Littoral Combat Ship), le motovedette fluviali, oltre a quei velivoli che hanno accumulato molte ore di volo o cicli di pressurizzazione rispetto alle specifiche originali del produttore. Così facendo si riuscirebbe a sbloccare fondi e riallocarli su piattaforme più recenti, comandi di addestramento e strutture di manutenzione.
Una scelta sicuramente coraggiosa ma anche opinabile: tagliare le unità più sottili o particolarmente specializzate – come gli Ssgn – potrebbe essere controproducente non solo nell’ottica dell’aumento del numero di unità presenti nella flotta, che passa attraverso l’ingresso in servizio di vascelli più piccoli, ma anche per il contrasto all’attività A2/AD che la Cina sta attuando nel Pacifico Occidentale, che avrebbe sicuramente più difficoltà a colpire unità piccole, ma bene armate, per non parlare di un sottomarino lanciamissili da crociera.
In ogni caso il tempo di prendere decisioni importanti è arrivato e non è più possibile procrastinarle stante l’attività sempre maggiore della Cina. Un dossier che il presidente Biden dovrà affrontare presto e che sicuramente – e inevitabilmente – gestirà nello stesso solco dell’amministrazione precedente.

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