domenica 13 Ottobre 2024

Noi nella fiaba

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“Fiaba” è termine ingannevole. Perché è un etimo del latino parlato, che dovrebbe derivare dalla voce colta “fabula”. Ma il suo significato è completamente diverso.
Fabulare significava semplicemente narrare. E la fabula latina altro non è che una narrazione. O addirittura una commedia. Fabulae sono le palliate di Plauto e Terenzio.
Per altro la favola vera e propria era considerata quella di Esopo prima, del suo epigono Fedro poi. Un apologo morale con per personaggi degli animali. Animali, però, antropomorfizzati. Per il resto narrazioni estremamente realistiche.
La fiaba è altra cosa. Ha a che fare con una sorta di subconscio collettivo dei popoli. Emerge dalla profondità di retaggi ancestrali. E non è retorica. Secondo alcuni studi accreditati scientificamente, il nucleo originale di alcune fiabe popolari potrebbe venire ricondotto addirittura al paleolitico. E l’immagine, suggestiva e inquietante, è quella di un gruppo di cacciatori nella grotta, accanto al fuoco, che evocano, nelle prime forme di linguaggio articolato, i mostri ed i demoni che si agitano nella tenebra circostante. Li evocano per evocare le loro paure. E per sconfiggerle. Forse fu questa l’origine remota della fiaba di Cappuccetto Rosso, del grande Lupo famelico e del cacciatore.
Ancora oggi le fiabe scavano nelle nostre paure collettive. Evocano i mostri innominabili che urgono appena al di sotto della coscienza diurna. Tolkien lo ha rappresentato nell’universo caotico e conflittuale che circonda la Contea. La Valle Serena ove vivono pacifici e tranquilli i “mezzi uomini”, gli Hobbit. Serenità apparente, ché l’inquietudine si insinua tra un ricco pasto ed una fumata d’erba pipa. Inquietudine che ha il volto corrugato di Gandalf il Grigio, l’antico stregone. Che spinge prima Bilbo, poi Frodo a prendere la Via. Ad affrontare gli orchi e lo stesso Sauron. A incontrare gli Elfi. A mescolarsi con gli uomini. A divenire, infine, uomini completi.
La fiaba ha sempre un, recondito, significato iniziatico. Iniziazione alla vita. Pollicino deve sconfiggere il Gigante per divenire uomo. Hansel e Gretel affrontare la minaccia della strega per conquistare l’amore di genitori che ci appaiono, a tutta prima, degeneri e anafettivi.
La fiaba, dice Tolkien in Albero e foglia, non è per i bambini. La fiaba ha a che fare con l’immaginario nascosto che urge dietro l’apparenza dell’esistenza ordinaria. Di ciò che chiamiamo realtà.
E la fiaba è strettamente legata all’Eros. Il bacio che ridesta la Bella Addormentata da un sonno profondo come morte, da un sonno drogato, è un atto di intenso, magico erotismo. E così quello del Principe a Biancaneve. Avvelenata dalla Mela. Che è il frutto simbolico dell’eros, da che nell’immaginario europeo ha sostituito il mediorientale fico come prodotto dall’albero del bene e del male.
Il bacio è segno dell’amore che libera, la mela ed il sonno dell’eros malato che imprigiona. E condanna a una non vita.
Le fiabe insegnano, dunque, che la vita è rischiare, uscire dagli schemi in cui noi stessi, per fragilità o pigrizia, per solitudine o sudditanza psicologica, ci siamo rinchiusi.
Ci riporta alle nostre origini. A quei nostri mitici antenati che ogni giorno dovevano affrontare tigri dai denti a sciabola e forse draghi. E che vivevano solo una manciata di anni. Ma vivevano, appunto. Non sopravvivevano.

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