sabato 27 Luglio 2024

«Vi mostro il porto d’armi di Quattrocchi»

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La giornalista del Sunday Times rivela nuovi dettagli.

L’unica cosa certa è che non sapremo mai la verità su questa vicenda che è stata strumentalizzata sia a destra che a sinistra.

«Vuoi la prova che è tutto vero? E allora guarda qui, abbiamo i documenti dei nostri ostaggi, incluso i computer degli italiani. E il porto d’armi di Fabrizio Quattrocchi, quello che abbiamo ucciso subito».
Fu allora che Hala Jaber comprese che non la stavano prendendo in giro. Ammonticchiati nella stanza c’erano laptop, borse, valigie, occhiali da sole, borsellini, plichi di documenti, vestiti, scatole di munizioni, telefonini.
La giornalista del Sunday Times quasi non credeva ai suoi occhi. Due settimane fa era davvero arrivata al covo dei rapitori, non lontano da Falluja, nel cuore del «triangolo sunnita», dove c’era il bagaglio degli ostaggi stranieri presi e rilasciati, oppure uccisi, negli ultimi due mesi. Chi, quali? «Ho visto il computer di un americano e altri pezzi di equipaggiamento di occidentali. Giubbotti antiproiettili, fotografie aeree dell’Iraq. Di certo mi hanno fatto vedere i personal computer degli italiani. Me lo ricordo perché la mia fonte, che nel mio articolo pubblicato domenica 27 giugno ho deciso di chiamare Abu Yussuf, spiegava che non era stato facile violare i codici di accesso. Ho già scritto che Yussuf è un arabo non iracheno, sunnita di 27 anni. Una persona intelligente, laureato, esperto di computer, parla arabo, inglese, italiano e francese. Eppure ci mise un bel po’ prima di scoprire le chiavi per leggere il contenuto dei laptop. E da qualche parte mi ha anche inviato alcuni particolari della compagnia americana e inglese per cui lavoravano gli italiani. Devo ancora leggerli dalla mia posta elettronica.
C’era una versione italiana e inglese degli stessi documenti. E altro materiale della Presidum, la compagnia di Salvatore Stefio. In effetti Yussuf continuava a citare Stefio, come se fosse il personaggio più importante. Yussuf aveva il compito di studiare tutti quei documenti, vedere se c’era alcun legame con i servizi segreti israeliani o americani. E alla fine decidere come giustificare la loro condanna a morte. Erano ossessionati da Israele ed erano convinti che gli italiani fossero in effetti agenti sionisti», precisa Hala.
A un certo punto durante quell’incontro Yussuf non ne può più delle domande incalzanti di Hala. A 44 anni, libanese, cresciuta alla scuola della Reuters, è ben attenta a non farsi infinocchiare da supposti informatori a caccia di giornalisti occidentali pronti a pagare fior di dollari pur di fare lo «scoop». Di recente ha trascorso lungo tempo in Cisgiordania e Gaza per investigare il fenomeno delle donne palestinesi kamikaze.
Così alla fine Yussuf estrae quella che secondo lui dovrebbe essere la prova conclusiva: il porto d’armi di Fabrizio Quattrocchi rilasciato dall’autorità provvisoria americana (dissolta il 28 giugno con il passaggio dei poteri al nuovo governo transitorio iracheno). È un documento standard. I militari italiani li rilasciano molto simili per la regione di Nassiriya. Sul retro il timbro rosso con un numero di codice: 2bct-2580. L’intestazione in inglese riporta, «Temporary weapons card», rilasciato il 28 marzo 2004. La residenza: l’hotel Babylon di Bagdad, dove il resto del gruppo di body guard italiane restò sino a una settimana dopo il rapimento del 12 aprile. Infine si registra il tipo d’arma denunciato da Quattrocchi, una mitraglietta da 9 millimetri modello Cz 75 e il numero di serie, 61360.
E Hala racconta altri particolari non pubblicati nel suo articolo sul Sunday Times . «Yussuf mi ha detto che, visto che la condanna a morte degli italiani era stata decretata praticamente subito, lui non aveva alcun problema nel farsi vedere da loro a volto scoperto. Non avrebbero dovuto sopravvivere

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