venerdì 19 Luglio 2024

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Persino la partecipazione “alla svizzera” fa bene al lavoro che noi stiamo invece uccidendo

Ancora una volta il paese elvetico si rivela protagonista della spesso citata serie “Un esempio da imitare”. In questa occasione, il tema è il mercato del lavoro e i riflessi negativi che la crisi globale ha avuto su di esso in termini di disoccupazione e sicurezza sociale. Sì perché la Svizzera, a differenza di altri paesi, è riuscita a “guarire dalla malattia” molto più rapidamente, recuperando i livelli occupazionali e di crescita registrati prima del recente periodo di recessione economica e finanziaria. Almeno è quanto emerge dallo studio “Inventory of Policy Reponses to the Financial and Economic Crisis” (Inventario delle politiche dei governi contro la crisi finanziaria ed economica) realizzato grazie alla collaborazione tra l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e la Banca Mondiale (BM). Il “neutrale” vicino ha dunque saputo reagire con prontezza alla situazione di grave instabilità che ha colpito il mercato del lavoro a partire dal 2008.

Innanzitutto, fondamentale è stato il dialogo tra le parti sociali. Secondo quanto sottolineato dal citato studio, infatti, la Svizzera può vantare un articolato sistema di coinvolgimento attivo dei rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori che permette agli stessi di intervenire concretamente nel processo di realizzazione delle riforme. In particolare, le parti sociali sono presenti in comitati consultivi sia a livello federale che cantonale. Quando in gioco ci sono questioni vitali per il Paese, la loro partecipazione ha luogo attraverso un ufficiale processo di consultazione “pre-parlamentare”, oltre che tramite vari meeting informali. Queste piattaforme di incontro sono state decisive nel salvataggio di numerosi posti di lavoro. Grazie ad accordi collettivi siglati per ogni settore, infatti, sono state negoziate delle riduzioni delle ore lavorative in cambio dell’assicurazione del mantenimento dell’impiego, evitando così ulteriori licenziamenti.

Determinanti sono state, inoltre, le politiche occupazionali portate avanti dal Governo svizzero. Più specificamente, tra il 2009 e il 2010 hanno visto la luce tre pacchetti di riforme incentrate sullo sviluppo delle infrastrutture e sulle misure per il risparmio energetico, rappresentando uno stimolo fiscale di circa lo 0.6% del Pil. In tale circostanza, ingenti risorse sono state destinate al finanziamento dei vari strumenti di integrazione salariale e dei programmi di formazione (soprattutto per giovani laureati, disoccupati, e cassintegrati) incrementando le possibilità di stage e di lavoro col governo centrale e aumentando i contratti di apprendistato con le istituzioni cantonali. Sul piano prettamente fiscale, il Governo elevetico ha poi deciso di rimandare un aumento dell’aliquota IVA già programmato in precedenza, e ha prorogato diversi benefici di natura tributaria, più precisamente nel campo dell’energia.

Infine, è stata introdotta una sorta di clausola di salvaguardia: lo sblocco di ulteriori fondi avrebbe avuto luogo solo se si fosse superata la soglia del 5% del tasso di disoccupazione. Cosa che non è avvenuta, in quanto il picco più alto registrato si è attestato attorno al 4,5%. Percentuale che appare piuttosto bassa se confrontata con il nostro 10,9%. Tuttavia, la Svizzera si è da sempre distinta per le alte performance del proprio mercato del lavoro, caratterizzato da forte flessibilità con una contrattazione decentrata dei salari e una ridotta regolamentazione in materia di tutele del lavoro. Una realtà certamente diversa da quella italiana, ma pur sempre utile da tenere d’occhio.

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