venerdì 19 Luglio 2024

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L’uncino del pirata Morgan (Stanley)

Circa 68 milioni di dollari è il «compenso» ottenuto da Morgan Stanley (per il servizio offerto in qualità di collocatore) per la recente quotazione al Nasdaq di Facebook. Senza contare gli ulteriori 125 milioni, realizzati congiuntamente ad altre banche d’affari con le attività di «trading» su internet. Ma – al netto degli affari generati da quello che è il suo core business – Morgan Stanley vedrebbe dietro l’angolo persino la possibilità di esercitare il controllo del popolare social network in un futuro prossimo, tanto che l’opera di «promozione» presso i sottoscrittori che sono accorsi in massa facendo schizzare il collocamento alla cifra-monstre di 22 miliardi di dollari con la contestuale e immediata perdita di valore del titolo (ora deprezzato di circa il 20% a 31,48 dollari per azione rispetto ai 38,23 di collocamento) avrebbe di fatto consentito alla merchant bank un maggior «potere contrattuale» nei confronti di Facebook.
LA RESPONSABILITÀ – Il Wall Street Journal attribuirebbe questo capolavoro finanziario, sia in termini di collocamento iniziale, sia in termini di rendita sull’assetto azionario, a Michael Grimes, capo technology investment banking di Morgan Stanley, il manager che ha curato in tutti i particolari la quotazione al Nasdaq e ha dovuto però metterci la faccia il primo giorno di contrattazioni, con l’indice tecnologico del Nasdaq Stock Market in panne e i trader inviperiti perché impossibilitati a fare la loro attività abituale su un titolo che per il suo alto potere simbolico – quasi immaginifico per la volontà esplicita di diventare il diario delle vite di ciascuno – poteva garantire lauti guadagni. Eppure sulla quotazione delle quotazioni – che ha ingolosito investitori istituzionali e non, soprattutto perché nessuno ha capito finora quanto il marchio Facebook può vendere agli inserzionisti pubblicitari (avvisaglia negativa è stata la scelta di General Motors di dirottare gli investimenti altrove) – aleggiano diversi sospetti. Li enuclea il quotidiano americano. Soprattutto uno: la scelta di escludere altri due templi delle banche d’affari come Goldman Sachs e Jp Morgan Chase dagli incontri istituzionali con i risparmiatori interessati a diventare piccoli azionisti, in modo da complicare enormemente la vita dei banchieri nel determinare il prezzo giusto di collocamento. Così come la scelta di collocare il 26% delle azioni presso piccoli investitori rispetto a una media – per le operazioni di questo tipo – del 15%. È ovvio che tutto ciò si tramuti in una percezione latente di un’autentica frode nei confronti del piccolo azionista, finito in un gioco più grande di lui.

 

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