venerdì 19 Luglio 2024

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Un posto precario si accoppia sempre a un salario più leggero rispetto al posto fisso, in media del 28%: la conferma emerge dai dati dell’Isfol, in base ai quali nel 2011 un dipendente a tempo determinato non riusciva a superare i mille euro al mese di reddito netto da lavoro, indipendentemente dalla fascia d’età.
Per i dipendenti a tempo il salario medio nel 2011 era di 945 euro, a fronte dei 1.313 euro degli occupati a tempo indeterminato: un divario del 28%, in crescita rispetto all’anno precedente che si attastava al 27,2%. Basti pensare che nel 2011 l’aumento per i dipendenti precari è stato in media solo di un euro. Ovviamente, precisa l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, aggiornando dati già contenuti nel Rapporto 2012, i contratti a tempo prevalgono soprattutto tra le nuove generazioni, anche se in valori assoluti i dipendenti precari sono numerosi pure tra i più adulti, con oltre un milione di occupati a termine tra gli chi ha almeno 35 anni. I dipendenti senza posto fisso, diceva l’Isfol già nel Rapporto uscito all’inizio dell’estate, «sono i più colpiti dalla crisi economica» e, aggiunge, «si tratta di un patrimonio di conoscenze e competenze che non sembra essere valorizzato, costituendo di fatto uno spreco per gli individui e per l’intero sistema economico».
Isfol: divario crescente. «Il carattere peculiare dei divari retributivi tra le due forme di lavoro subordinato – dice il direttore generale dell’Isfol, Aviana Bulgarelli – è la scarsa dinamica dei salari dei tempi determinati: indipendentemente dall’età il salario medio dei lavoratori temporanei rimane sotto i 1.000 euro, mentre il livello retributivo medio dei dipendenti permanenti passa da poco più di 900 euro nella classe di età 15-24 anni ai quasi 1.500 euro nella classe 55-64 anni. Il divario retributivo risulta pertanto crescente con l’età. Anche se il lavoro dipendente prevede generalmente l’applicazione di salari minimi legati ai contratti collettivi nazionali, dove previsti, la componente di lavoratori a termine risulta comunque più penalizzata».
I motivi del divario. Le ragioni sono diverse, evidenzia il dg dell’Isfol: «In primo luogo poiché il lavoro a termine evita, con la scadenza dei contratti, l’applicazione delle fasce di anzianità previste dai contratti collettivi; inoltre i dipendenti a termine usufruiscono in misura minore della componente retributiva legata a straordinari e ad altri emolumenti; tra i contratti a termine, infine, il lavoro a tempo parziale incide in misura decisamente maggiore (25,5% a fronte del 14,9% del lavoro a tempo indeterminato), contribuendo a ridurre il salario medio».
Il fattore età. Un altro carattere distintivo tra le due forme di contratto riguarda l’età, come già noto c’è una larga prevalenza di giovani tra gli occupati a termine. A riguardo Bulgarelli osserva: «Oltre il 50% dei lavoratori temporanei ha meno di 35 anni a fronte del 24% tra gli occupati permanenti. Il rischio di subire un lavoro a termine mostra un livello elevato nella prima classe di età (poco meno del 50% degli occupati dipendenti tra 15 e 24 anni ha un contratto a termine), per poi diminuire sensibilmente fin dalla classe di età successiva». Sicuramente quindi il lavoro precario si conferma come lo strumento d’ingresso dei giovani nell’occupazione, «mostrando tuttavia – precisa il direttore generale dell’Isfol – incidenze relativamente elevate anche nelle classi di età centrali e, ciò che maggiormente lo caratterizza, un livello retributivo che, sommato al carattere precario dell’occupazione, penalizza marcatamente i lavoratori temporanei».

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