venerdì 19 Luglio 2024

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L’alienazione sai cos’è? Sei tu

Il termine «alienazione» risale al tempo memorabile della catena di montaggio, dove la ripetizione ossessiva degli stessi gesti, in tempi definiti e con modalità sempre uguali, portava l’operaio a manifestare dei disturbi psicosomatici invalidanti per la sua normale esistenza al di fuori dello specifico ambito lavorativo. Per i ricercatori della scuola sociologica di Francoforte e gli psicoanalisti post-freudiani, l’alienazione era la conseguenza dell’impossibilità, per l’uomo, di rispondere alle domande della propria natura e, quindi, di progredire nel miglioramento di sé. Tutto ciò a causa delle pressioni economiche che andavano sempre più privilegiando la componente del consumo e dell’accumulo rispetto a quella della soddisfazione interiore.
Il tempo è passato, e il quadro dell’alienazione si è completamente modificato: si potrebbe dire proprio sovvertito.
Le tecniche di lavoro hanno lasciato il posto alla robotizzazione, con sempre minore intervento da parte dell’uomo, quindi con una richiesta più ridotta di competenze specifiche e di capacità manuali. Lo stesso lavoro, ormai, si è ridotto per numero di impiego e per gratificazione economica, lasciando il posto ad attività «virtuali» che non richiedono gesti artistici o ideazioni creative, ma soltanto intuizioni tattiche e spirito di speculazione. Sono queste predisposizioni a ottenere i maggiori benefici di immagine e di denaro. In altre parole, gli agenti del capitale, i promotori finanziari, i manager aziendali e i gestori delle risorse umane sono i soggetti che ottengono la maggiore considerazione sociale e valore commerciale rispetto agli operatori della cultura e ai portatori del pensiero.
Si è proletarizzato il lavoro intellettuale e si è aristocratizzato quello commerciale, confermando la deriva che Max Weber profetizzò sulla pericolosità del passaggio dall’aristocrazia di sangue a quella del denaro.
Insomma, l’alienazione ha lasciato il contesto produttivo per avvolgere nelle sue spire mortifere la stessa esistenza complessiva dell’uomo.
Per analizzare il fenomeno in corso è essenziale tenere presente l’avvenimento di Ernst Jünger: «Il tentativo di venire a capo di un’epoca con i soli mezzi offerti da questa, si consuma nel girare a vuoto intorno ai suoi luoghi comuni: non può riuscire». Quindi, è essenziale defilarsi da quel gioco di specchi che tende a rimandare sempre ad altri luoghi e ad altri elementi l’obiettivo dell’analisi e dell’attacco, e concentrarsi su un unico fronte: scegliere il «nemico», insomma, secondo le indicazioni di Carl Schmitt. E il nemico in questione è l’assenza di Stato.
«Tutto nello Stato, niente fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», scrisse Mussolini; e gli fece eco Lenin: «Dove c’è libertà non c’è Stato». In sostanza, sarà pure che gli estremi si toccano, ma è chiaro che lo Stato è prevalente rispetto alla Nazione, alla quale lo stesso dà forma, mentre una Nazione senza Stato è un’entità in balia di forze estranee e avverse ad essa.
E noi qui siamo. Viviamo in assenza di uno Stato che sia pedagogo e formatore, che ha rinnegato la sua funzione etica per definirsi come gratificatore di istinti e di minoritarie voglie, che ha rinunciato alla sua opera di educazione del cittadino per abbassarsi ad operatore di accudimento dell’individuo.
Viviamo – come già in altre circostanze ribadito – in un sistema tecnico-economico in cui è attivo il relativismo, strategia sommatoria del positivismo e dello storicismo, dove i valori sono mutabili in base alle contingenze delle lobbies societarie, e dove una libertà senza il limite di un principio di trascendenza è diventata il grimaldello per scalzare ogni legge di natura e di senso. Oggi è in atto un potere privo di autorità, che non riconosce alcuna idea alla quale riferirsi, ma soltanto opinioni alle quali adattarsi a seconda dei gruppi di pressione che pretendono di farle generali.
Viviamo in un’assenza di Stato che permette la devastazione della Nazione da parte di una pirateria senza bandiere e senza divisa (qualcuno saprà pure fare un collegamento con chi, senza bandiera e senza divisa, ha tradito l’Italia consegnandola all’invasore?!), grazie all’assenza di una qualsivoglia autorità morale e alla presenza, invece, di un apparato tecnico al servizio di poteri incontrollabili e antinazionali. Un sistema che non promette un futuro di lavoro, che rinnega un passato di grandezza, che mistifica un presente costellato da devianze giovanili e suicidi di padri di famiglia, povertà e negazione di ogni prospettiva.
Viviamo in un’assenza di Stato in cui i governi sono esautorati da ogni possibilità di sovrana decisione, orchestrati in maniera illegittima da organismi estranei non soltanto all’interesse del popolo, ma all’esistenza stessa della Nazione. Dove una casta gestisce un impianto affaristico fatto di intrallazzi personalistici e da interessi di bottega, all’insegna della più becera propaganda e dalla peggiore manipolazione del pensiero. Dove la rappresentanza politica viene cooptata su indicazioni familiari, partitiche e transnazionali.
Viviamo in un’assenza di Stato nel quale anche la Chiesa, per istituzione preposta alla diffusione della fede e alla cura delle anime, ha ridotto il suo apostolato in una pratica militante, al servizio di una generica «umanità» e di un prossimo sempre più lontano ed invasivo: un umanesimo socioiatrico sempre più vicino alle procedure marxiste, che emargina, perseguita e scomunica i difensori del Verbo, per assecondare i ricatti di altre minoranze monoteiste e dedicarsi alla suicida accoglienza dei suoi nemici. Una Chiesa che non giudica le perversioni, le immoralità e le degenerazioni di chi la seduce, ma condanna chi la mette in guardia da queste diaboliche intrusioni.
E l’uomo, come si trova in questa atmosfera di smobilitazione? Si trova senza alcuna aderenza a qualsivoglia principio, totalmente immerso in un universo di bisogni artificialmente indotti e sadicamente impossibilitato a soddisfarli, destrutturato nella sua specifica personalità e con l’incertezza spaesante sulla sua stessa identità. Tutte le categorie sono saltate: quelle di genere, quelle di funzione, quelle di ruolo. Comparando la tripartizione di Schopenhauer del «Ciò che si è», «Ciò che si ha» e «Ciò che si rappresenta» con la situazione attuale, si può dire che quest’uomo della post-modernità, dopo essere stato illuso sul piano dell’avere, e sedotto di seguito su quello dell’apparire, ora è completamente annullato su quello dell’essere. Senza una linea di forza e un vettore politico in ambito temporale, e senza una tensione superiore e un principio di eternità nell’ambito della trascendenza, egli ha la stessa euforia del naufrago o dello sperduto nel deserto: vede approdi rigogliosi e oasi accoglienti, ma sono soltanto inganni della mente e lusinghe dell’anima.
Come è improprio chiamare questo sistema disanimato con il termine di Stato, è ancora appropriato definire questo essere estraniato da se stesso con il termine di uomo?

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