venerdì 19 Luglio 2024

Cadere in Ucraìna

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Un soldato romano nell’armata cosacca

C’è tanta strada da fare per arrivare dal Tevere, magnifico e caldo, che scorre lento nei millenni della Roma imperiale, al gelido e tortuoso fiume Dniester, che si fa strada tra le colline della foresta nera ucraina. C’è ne è molta di più se prima di arrivarci ci si è spinti fino al Volga trascinandosi dietro i cannoni nella neve e nel fango, per sferrare il colpo fatale dritto al cuore dell’impero bolscevico. E poi, sconfitti, ripiegate le insegne e salvata la pelle, rimettersi in viaggio, a piedi o con mezzi di fortuna, verso casa con il generale inverno alle costole e dietro di lui l’intera Armata Rossa.
Tutta questa strada l’ha fatta Agostino.
Agostino Donnini, romano, figlio di un reduce della Prima Guerra Mondiale invalido di guerra che si è reimpiegato come postino, che lo fa studiare perché lo vuole vedere medico, si spacca la schiena sulla bicicletta con la borsa delle lettere che ogni giorno pesa sempre di più, ma fa il sacrificio e manda il figlio al liceo e dopo il liceo a studiare medicina all’università, in quella Roma belle époque degli anni ‘20 borghese e spensierata.
Proprio ad un passo dalla laurea che lo proclamerà medico l’Italia, che intanto ha fatto la sua rivoluzione ed è diventata un impero coloniale entra in guerra con l’alleato tedesco e manda i suoi legionari al fronte, l’immenso fronte che sembra dividere in due il mondo da ovest ad est.
Agostino va a est. È nel corpo d’armata che invade la Russia bolscevica, combatte fino alla fine, mezzo medico e mezzo soldato, con buona pace del papà postino. Combatte fino al 1943 subendo le tragiche vicende belliche del fronte dell’est, che scricchiola, si flette e collassa e i soldati devono arretrare prima e ritirarsi poi. Il soldato riprende la strada di casa, quella fatta con le armate che ora sbandano e si sciolgono, i tedeschi a difendere Berlino, gli italiani smarriti e traditi a difendere l’onore o a riabbracciare le famiglie. Ma per Agostino quella non era solo una guerra di uomini e carri, di cannoni e acciaio, era molto di più. Era una guerra di un mondo contro un altro, una filosofia, un sentimento, un impeto, una tradizione contro il mostro sovietico e la sua ideologia folle, di masse e schiavi, di propaganda e fame e una guerra così non si ferma con il cessate il fuoco, le ideologie non firmano armistizi, si combattono fino alla fine.
Per questo il quasi dottore Agostino Donnini figlio di postino a casa non ci torna. Spesso lo si sente affermare che: “È necessario distruggere il bolscevismo prima che raggiunga le frontiere dell’Italia” e così si ferma su un nuovo fronte meno famoso e vasto di quello russo ma sempre schierato contro lo stesso nemico, che avanza.
Si ferma in Ucraina nell’Oblast’ di Ivano-Frankivs’k una provincia dell’ovest del paese, dove in una striscia di 30 km a ridosso della foresta nera, l’esercito d’insurrezione ucraino sta tentando di opporsi all’occupazione sovietica del paese.
Magro, capelli neri e statura media – così lo ricorda “Chayka”, un altro volontario della resistenza anticomunista e il suo camerata Dmytro Protsenko, un ex membro dell’esercito d’insorgenza ucraino della città di Palahychi, lo ricorda vestito con un cappotto militare sovietico grigio, che parla e scherza con i suoi camerati in un mix di russo e ucraino spezzettati. Parla molto anche della sua patria.
I patrioti lo chiamano dottore, anche se la guerra lo ha privato della laurea, e lui durante le pause tra i combattimenti lavorava come medico curando come possibile commilitoni e popolani.
Il 30 Novembre 1945 Donnini, che intanto ha preso il nome di battaglia di “Mykhas” è sotto il comando del generale Dovbush nella compagnia”Mesnyky” del capitano “Pavlo”, prende parte all’azione che porta alla distruzione di una intera divisione della famigerata NKVD (polizia segreta sovietica poi KGB) nella città di Delyatyn. Nel tempo di un’ora, venti automezzi nemici sono distrutti.
Purtroppo grazie al monitoraggio dei movimenti dei patrioti insorti, i bolscevichi sono in grado di lanciare loro contro la fanteria e gli aerei. Dopo ore di combattimenti, superati nel numero i pochi ribelli sopravvissuti – tra i quali Donnini – devono ripiegare.
Per sfuggire all’attacco bolscevico, il generale Dovbush ha ordinato a una dozzina di ribelli di attendere e rimanere a combattere nella retrovia per coprire la difficile ritirata verso la regione da cui erano partiti. Impiegano sei giorni per disimpegnarsi e tornare indietro attraverso le tempeste di neve, affamati e stanchi.
Neanche un mese dopo Agostino è di nuovo all’azione, Il 21 dicembre 1945, partecipa a una spedizione per stanare delle spie nemiche dalla cittadina di Viknyany, lui e i suoi camerati, però, cadono in una trappola. Entrati nel cortile di una casa, segnalata come base operativa dei servizi informativi del nemico, vengono investiti dalle raffiche delle sentinelle in agguato. Agostino ha fatto irruzione per primo e il suo corpo fa da scudo agli altri volontari che riescono a salvarsi. Lui invece cade colpito da numerose raffiche. Muore.
Viene buttato dai bolscevichi in una fossa senza nome, ma quando questi si ritirano gli abitanti del villaggio esumano il corpo del dottor Donnini e lo seppelliscono nel cimitero della chiesa principale, affianco ai suoi commilitoni caduti, spalla a spalla come nella foresta.
Nella città dove Agostino è caduto, è stato eretto un monumento in suo onore e in ricordo dei patrioti che combatterono questa guerra dimenticata, una delle strade principali della città porta il suo nome.
Il nome del Dottor Agostino “Mykhas” Donnini, legionario romano ed eterno volontario, caduto sul fronte dell’idea, onorato in patria con l’oblio.
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