sabato 20 Luglio 2024

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gli Usa proseguono nella loro strategia perfetta

E comunque, visto cosa vuol dire avere una banca di Stato e fare sistema?? 

 

La Federal Reserve ha gettato un salvagente all’oro, che è balzato ai massimi da due settimane oltre quota 1.140 dollari l’oncia. Ma non ha interrotto la discesa delle altre materie prime, in particolare il petrolio e i metalli industriali, che hanno anzi reagito male al rinvio della stretta monetaria: il Wti ha chiuso con un ribasso addirittura del 4,7% a 44,68 $/barile, il rame ha perso più del 3%, toccando un minimo di 5.233 $/tonnellata.

 

Il problema per le commodities non nasce tanto dalla scelta della Fed, che in teoria – indebolendo il dollaro – favorisce l’apprezzamento degli asset quotati in questa valuta, ma dalla principale motivazione che è stata addotta, ossia la debolezza delle economie emergenti e in particolare di quella cinese, tale da sollevare incertezze anche sulla ripresa americana.

 

Nel mondo delle commodities la salute della Cina non è un dettaglio trascurabile. Pechino rappresenta un quarto della domanda mondiale di oro e circa la metà di quella di molti metalli industriali, tra cui il rame, l’alluminio e l’acciaio. Tra prodotti agricoli, divora un terzo dei raccolti globali di riso, soia e cotone, nonché circa un quinto del grano e del mais. Quanto al petrolio, i consumi cinesi sono superati solo da quelli degli Stati Uniti. E dopo il miracolo shale oil Washington le ha ceduto lo scettro di primo importatore: Pechino acquista oltre 7 milioni di barilil al giorno.

 

Se la Cina preoccupa così tanto la Fed da indurla a ricalibrare le sue politiche monetarie, i motivi di pessimismo non mancano. Sul petrolio tra l’altro il rinvio dell’aumento del costo del denario negli Usa ha anche un altro potenziale effetto ribassista, più indiretto, in quanto potrebbe prolungare artificialmente la vita di molti produttori di shale oil, ormai agonizzanti sotto il peso dei debiti (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).

 

Il dipartimento per l’Energia Usa, in un’analisi appena pubblicata, denuncia che tra luglio 2014 e giugno 2015 il pagamento degli oneri a servizio del debito hanno consumato in media l’83% del cash flow operativo di 60 produttori americani di petrolio onshore. Dopo giugno la situazione probabilmente è peggiorata ancora e non a caso si stanno moltiplicando gli episodi di insolvenza: il tasso di default nel settore dell’energia Usa, osserva Fitch Ratings, è salito al 4,8%, il livello più alto dal 1999 (ad agosto era al 3,3%). Per le società di produzione ed esplorazione di idrocarburi il tasso è addirittura dell’8,5%, con un volume di default di 10,4 miliardi di dollari.

 

Persino per l’oro potrebbe durare poco l’effetto benefico del rinvio della Fed: in parte perché si tratta per l’appunto solo di un rinvio (molti analisti ritengono possibile una stretta a dicembre) e in parte perché ad indurre il comitato monetario alla prudenza è stata anche l’inflazione troppo bassa. Il lingotto come si sa viene spesso acquistato come “scudo anti-inflazione”. Non solo. Qualcuno teme inoltre che possa venire meno anche la trazione delle banche centrali: erano stati proprio i Paesi emergenti, oggi in crisi, ad accrescere di più le riserve auree negli ultimi anni. Ora potrebbero addirittura vendere oro, per sostenere le proprie valute. Una parziale rassicurazione è comunque arrivata dalla Russia, che ieri ha comunicato un nuovo forte incremento delle riserve auree in agosto: ben 28 tonnellate. 

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