sabato 20 Luglio 2024

Estremo ma Oriente

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Il preoccupante enigma asiatico

La Cina è vicina. Anzi, vicinissima, e non solo per la questione del 5G o per gli accordi firmati con l’Italia nel quadro del piano planetario di sviluppo commerciale chiamato Nuova Via della Seta (o Belt and Road Initiative). Il dragone che guarda oggi all’Europa con occhio diverso dopo essersi preso mezzo continente africano, vuole affondare ancora di più i suoi artigli nel suo cortile di casa rappresentato da quell’area dell’Estremo Oriente che va dallo Stretto della Malacca sino al Mar del Giappone.
È in questo teatro che si sta giocando una partita a scacchi tra diversi attori: alcuni sono vecchie conoscenze della Guerra Fredda mentre altri sono passati da comparse, o comunque da aver avuto un ruolo subalterno, a protagonisti, e spesso antagonisti. Il quadro generale potrebbe sembrare complesso o caotico: la Corea del Nord e del Sud, la Cina, Taiwan, il Giappone, l’India, gli Stati Uniti sono tutti Paesi che abbiamo sentito coinvolti in fatti di cronaca apparentemente slegati tra loro negli ultimi anni, eppure c’è un filo conduttore.

Il fronte bollente dell’Estremo Oriente
Agli occhi eurocentrici di un osservatore disattento quanto sta succedendo in Estremo Oriente da almeno tre lustri può sembrare di secondaria importanza, oppure facilmente si potrebbe pensare ad una riproposizione degli schemi della Guerra Fredda tra potenze contrapposte, che in questo caso sarebbero la Cina e gli Stati Uniti. Se la prima considerazione è sicuramente sbagliata, è pur vero che la seconda ha in sé un fondo di verità.
Per capire quanto sta accadendo e perché non si possa parlare propriamente di Guerra Fredda occorre ricostruire brevemente il quadro strutturale e strategico dei Paesi che in questo momento sono gli attori principali del palcoscenico estremo orientale. La situazione attuale si è definita a partire da due fattori che sono strettamente concatenati tra di loro: il disimpegno americano nel settore del Pacifico Occidentale ed il parallelo sorgere dell’espansionismo cinese nella stessa area.
Se Washington ha deciso, già a partire dall’amministrazione Obama, di delegare i compiti inerenti alla sicurezza della regione ai suoi alleati e amici (dal Giappone al Vietnam), Pechino ha colto l’occasione per colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti e dare il via ad una politica aggressiva di rivendicazioni territoriali (il Mar Cinese Meridionale) che è funzionale alla propria politica di passaggio da potenza regionale a globale.

L’avvicendamento alla Casa Bianca non ha sostanzialmente mutato questa postura strategica americana: il concetto di “America First” del presidente Trump sottintende che gli Stati Uniti mantengano il controllo diretto, con le proprie Forze Armate, solo di quei settori globali considerati cruciali per i propri interessi preferendo agire in prima persona solo in caso di stretta necessità altrove – l’intervento Usa nella crisi nordcoreana è avvenuto solo quando Pyongyang ha dimostrato di poter minacciare direttamente il suolo americano con il proprio programma di missili balistici intercontinentali. Se la Cina ha potuto, dapprima lentamente poi sempre più velocemente, militarizzare le isole che ha occupato unilateralmente nel Mar Cinese Meridionale è proprio perché Washington considera quel settore secondario rispetto a quello del Mar del Giappone, ad esempio.
Considerarlo secondario, però, non significa abbandonarlo: gli Stati Uniti hanno dato il loro appoggio – con forniture di armi ed elargendo fondi – ai propri alleati e amici nell’area (Filippine, Vietnam, Taiwan) con la speranza che potessero “cavarsela da soli”, mentre continuavano a limitarsi a far valere il diritto internazionale di libera navigazione aerea e navale in quelle acque considerate da Pechino come ormai appartenenti al proprio territorio. Questo può essere considerato un errore di valutazione da parte americana avendo lasciato campo aperto all’unica potenza regionale che può realmente proporsi non solo come antagonista ma come sostituta nel ruolo di gendarme nello scacchiere estremo orientale: la Cina. Non è infatti un’ipotesi così peregrina pensare che gli altri attori di quel palcoscenico possano decidere di uscire dall’influenza americana per entrare in quella cinese, essendo Pechino capace di offrire una valida – e minacciosa – alternativa al modello Usa.

Si è così innescata una reazione a catena i cui esiti appaiono pericolosi quanto incerti: alleati storici degli Stati Uniti, come il Giappone e la Corea del Sud – che storicamente si sono sempre guardati reciprocamente con timore e sospetto – hanno cominciato a cambiare la propria politica a fronte del disimpegno statunitense. Il caso nipponico è emblematico: il premier Shinzo Abe ha dato il via ad un riarmo generale che proseguirà parallelamente ad un inevitabile cambio della Costituzione del Giappone, sino ad ora improntata ad un pacifismo estremo. Conseguentemente la Corea del Sud, che come detto è animata da sentimenti nippofobici, ha intrapreso la stessa strada e vuole dotarsi di nuove armi, tra cui le portaerei, anche per contrastare Tokyo oltre che Pechino.
Altri Paesi, come Indonesia, Malesia, Vietnam, hanno aumentato vertiginosamente le proprie spese per la Difesa, accodandosi ed in risposta al gigante cinese che, nell’area, è quello che ha visto il maggior incremento percentuale da questo punto di vista (+7,5% in un anno).
Le alleanze appaiono fragili, fluide, perfino ambigue. L’India, ad esempio, è tornata ad essere al centro dell’interesse del Dipartimento di Stato americano proprio per la sua volontà di contrastare l’espansionismo cinese che non si limita ai mari del proprio cortile di casa, ma guarda con vivace interessa all’Oceano Indiano ed agli Stretti di Bab el-Mandeb e a Suez, dopo decadi in cui Washington ha guardato con più attenzione al suo rivale storico – il Pakistan – in funzione della lotta ai Talebani e al terrorismo islamico. L’effetto è stato quello di portare il Pakistan nell’orbita della Cina, che ha messo in campo il suo soft power costruendo centrali atomiche e proponendosi per la creazione di nuove infrastrutture portuali. La stessa Corea del Sud, che ha sul proprio suolo circa 23mila soldati americani facendone il Paese con la più forte presenza militare Usa in Estremo Oriente, sembra soffrire la gestione di Washington dei rapporti con la Corea del Nord e col Giappone, avendo dimostrato, in più di una occasione, di perseguire una propria politica spesso in contrasto con quella americana.

È davvero una nuova Guerra Fredda?
Con questi presupposti risulta difficile parlare di nuova Guerra Fredda per quanto sta accadendo in Estremo Oriente. Abbiamo dimostrato come, a differenza di quanto accadeva tra i due blocchi della Nato e del Patto di Varsavia, le alleanze siano fluide, ma c’è un altro fattore da considerare che differenzia la situazione da quanto avvenuto in Europa e nel Mondo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sino al 1991: oggi ad affrontarsi non sono due visioni del mondo assolutamente contrastanti, due sistemi economici totalmente opposti, bensì differenti sfumature di un solo grande sistema. Il mondo è ben avviato verso il multipolarismo comunque caratterizzato dalla stessa impronta capitalista di fondo: Russia, Stati Uniti, Cina e le altre potenze regionali emergenti come l’India sono tutti Paesi caratterizzati da un’economia dall’impronta globale, dalla ricerca di aperture di nuovi mercati.
Del resto i due stessi attori antagonisti principali, Cina e Stati Uniti, hanno dei legami commerciali ed economici che non caratterizzavano quelli tra Washington e Mosca durante la Guerra Fredda. Questo però non rappresenta, a nostro giudizio, un fattore stabilizzante, bensì, al contrario, la possibile causa di maggiori attriti e contrasti: messo da parte l’accaparramento delle risorse energetiche, ormai pressoché delineato fatto salvo che per pochi settori del mondo come l’Artico o il Mar Cinese Meridionale, la lotta sarà per il controllo delle vie commerciali e per assicurarsi il dominio dei mercati dei Paesi emergenti e non è affatto sicuro che questa battaglia sarà combattuta esclusivamente tramite la diplomazia tout court o i dazi, che comunque rappresentano, come visto, un grande fattore di attrito, ancora più grande rispetto alla presenza militare in acque o settori del globo contestati, come Taiwan.
La questione dell’isola ribelle meriterebbe un approfondimento a sé stante ma è possibile inquadrarla perfettamente nella politica Usa di attenzione agli snodi cruciali – gli schwerpunkt di clausewitziana memoria – funzionali al contrasto di Washington all’espansione della Cina, che ha dimostrato recentemente proprio una palese, sfrontata e maggiore aggressività verso Taiwan. Se dovesse cadere Tawian, cadrebbe il Mar Cinese Meridionale, se cade il Mar Cinese Meridionale termina l’influenza americana sugli Stati del Pacifico Occidentale lasciando campo libero alla Cina che diventerebbe il polo intorno a cui graviterebbero gli altri attori regionali.

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